AI FINI IVA E IRPEF- 20 APRILE 2022
di Daniele Majorana
(Miccinesi Tax, Legal & Corporate Special Counsel – Cultore Diritto Tributario Università
Cattolica)
Ai fini IVA, l’Agenzia delle Entrate ha assimilato il cambio delle valute virtuali in valute fiat, alla stregua di operazioni esenti; ai fini IRPEF, invece, ha assimilato il trading di valute
virtuali a quello delle valute estere che genera redditi diversi assoggettati all’imposta sostitutiva del 26% solo ove risulti integrata la finalità speculativa, ossia qualora
contestualmente siano realizzate mediante cessione a titolo oneroso di valute estere, oggetto di cessione a termine o rivenienti da depositi o conti correnti e nel periodo
d’imposta la giacenza dei depositi e conti correnti complessivamente intrattenuti dal contribuente, calcolata secondo il cambio vigente all’inizio del periodo di riferimento sia
superiore a 51.645,69 euro per almeno sette giorni lavorativi continui.
Secondo la Corte di Giustizia UE (sentenza 22 ottobre 2015, C-264/14), le valute virtuali non possono essere assimilate ai beni materiali di cui all’art. 14 della direttiva IVA, pertanto, il
cambio delle valute tradizionali (fiat) in valuta virtuale costituisce una prestazione di servizi ai sensi dell’art. 24 della direttiva IVA.
Nell’ambito delle prestazioni di servizi, la Corte di Giustizia UE ha dapprima individuato cosa non sia qualificabile alla stregua di una valuta virtuale. In particolare, la Corte ha escluso che il
cambio di valute tradizionali in valuta fiat possa essere assimilato alle operazioni relative:
– “ai depositi di fondi, ai conti correnti, ai pagamenti, ai giroconti, ai crediti, agli assegni e ad altri effetti commerciali”, esentati dal tributo ai sensi dell’articolo 135, paragrafo 1, lettera d),
della direttiva IVA; tale disposizione, infatti, riguarda servizi o strumenti che operano al fine di trasferire denaro e non copre le operazioni che coinvolgono il denaro stesso. Più
specificamente, per la Corte di Giustizia UE le valute virtuali non possono essere considerato come un conto corrente o un conto di deposito, un pagamento o un trasferimento […] bensì
esse sono assimilate a un mezzo di pagamento diretto tra gli operatori che lo accettano;
– “alle quote parti di società o associazioni, obbligazioni e altri titoli”, esentati dal tributo ai sensi dell’art. 135, paragrafo 1, lettera f), della direttiva IVA, poiché la valuta virtuale) non
conferisce alcun diritto di proprietà o altro diritto di natura analoga.
Pertanto, la Corte ha ricondotto le operazioni in questione tra quelle “relative a divise, banconote e monete con valore liberatorio”, esentate dal tributo ai sensi dell’art. 135,
paragrafo 1, lettera e), della direttiva IVA.
Ai fini IVA, le cause di esenzione devono essere interpretate in senso restrittivo, poiché esse costituiscono una deroga al principio generale in base al quale l’imposta è riscossa per
ogni prestazione di servizi a titolo oneroso da parte di un soggetto passivo. Tuttavia, in materia di valute, la trasposizione nell’ordinamento italiano della disposizione sopra citata non
consente di determinare se essa debba applicarsi esclusivamente a operazioni riguardanti le valute tradizionali (fiat) ovvero anche quelle valute di altra natura. Infatti, mentre l’art. 10,
comma 1, n. 3, D.P.R. n. 633/1972 dispone l’esenzione dall’IVA per le “le operazioni relative a valute estere aventi corso legale e a crediti in valute estere, eccettuati i biglietti e le monete da
collezione e comprese le operazioni di copertura dei rischi di cambi”, l’art. 135, lettera e), direttiva n. 2006/112/CE prevede una nozione di esenzione più ampia, facendo riferimento alle
operazioni “relative a divise, banconote e monete con valore liberatorio, ad eccezione delle monete e dei biglietti da collezione ossia monete d’oro, d’argento o di altro metallo e biglietti
che non sono normalmente utilizzati per il loro valore liberatorio o presentano un interesse per i numismatici”.
La stessa Agenzia delle Entrate, in sede di risposta a interpello (risoluzione n. 72/E del 2016), nel qualificare le valute virtuali ha volutamente stressato l’elemento psicologico della fiducia
del loro valore liberatorio nel soggetto che le riceve, evidenziando che:
“La circolazione dei bitcoin, quale mezzo di pagamento si fonda sull’accettazione volontaria da parte degli operatori del mercato che, sulla base della fiducia, la ricevono come corrispettivo
nello scambio di beni e servizi, riconoscendone, quindi, il valore di scambio indipendentemente da un obbligo di legge”.
Alla luce di tale qualificazione l’Agenzia delle Entrate:
– ai fini IVA, ha assimilato il cambio delle valute virtuali in valute fiat, alla stregua di operazioni esenti, in base al dettato dell’art. 10, comma 1, n. 3, D.P.R. n. 633/1972 che dispone
l’esenzione per le sole valute legali;
– ai fini IRPEF, ha assimilato il trading di valute virtuali a quello delle valute estere che genera redditi diversi assoggettati all’imposta sostitutiva del 26% solo ove risulti integrata la finalità
speculativa, ossia qualora contestualmente:
i) siano “realizzate mediante cessione a titolo oneroso di valute estere, oggetto di cessione a termine o rivenienti da depositi o conti correnti” (art. 67, comma 1, lettera c-quater, TUIR);
ii) “nel periodo d’imposta la giacenza dei depositi e conti correnti complessivamente intrattenuti dal contribuente, calcolata secondo il cambio vigente all’inizio del periodo di
riferimento sia superiore a cento milioni di lire (€ 51.645,69) per almeno sette giorni lavorativi continui” (art. 67, comma 1-ter, TUIR).
Autorevole dottrina (G. Escalar, “Il regime fiscale dei redditi delle criptovalute conseguiti dai privati”, in Corriere Tributario n. 10/2021) ha evidenziato che la giacenza media va verificata
non solo nel rispetto all’insieme dei wallet detenuti (i.e. paper, hardware, desktop, mobile, web, a seconda della tecnologia del mezzo di conservazione) ma anche considerando l’importo delle
valute estere tradizionali a disposizione del contribuente.
Dall’assimilazione delle criptovalute alle valute estere consegue che per le plusvalenze realizzate mediante la cessione a titolo oneroso di criptovalute detenute su depositi e conti
correnti non è ammesso l’esercizio dell’opzione per il regime del risparmio amministrato in quanto l’art. 6, lettera c-ter, D.Lgs. n. 461/1997 non la prevede.
Anche prescindendo dall’assimilazione delle valute digitali a quelle estere, si ritiene che le plusvalenze rivenienti dalle prime ricadano comunque tra i redditi diversi: “realizzati mediante
[…] rapporti attraverso cui possono essere conseguiti differenziali positivi e negativi in dipendenza di un evento incerto di carattere finanziario” (art. 3, lettera c-quinquies , D.Lgs.
461/1997) soggetti a imposta sostitutiva del 26% senza alcuna franchigia (art. 5, D.Lgs. 461/1997) quali redditi diversi di matrice finanziaria.
Si ritiene, infatti, che l’investimento in cryptoasset integri la nozione di reddito di capitale; sotto il profilo fiscale quest’ultima è connessa a quella di impiego di capitale che ha natura
economica e non civilistica, quindi, non deve essere interpretata rigidamente quale risultante di un contratto di finanziamento. Ai nostri fini, è sufficiente che una parte trasferisca alla sua
controparte la disponibilità temporanea di capitale (anche digitale) e che da tale trasferimento ne consegua in termini economici un vantaggio, e cioè un provento anche se non
necessariamente espresso in forma di interesse. Tale definizione trova efficacia anche per quei capitali rappresentati da mezzi di pagamento che si basano sulla fiducia del soggetto che riceve
il pagamento.
Per passare dalla definizione di reddito di capitale a quella di reddito diverso, occorre richiamare l’art. 44, lettera h), TUIR che, con una norma di chiusura, detta la definizione
residuale dei redditi di capitale: “Sono redditi di capitale: […] h) gli interessi e gli altri proventi derivanti da altri rapporti aventi per oggetto l’impiego del capitale, esclusi i rapporti attraverso
cui possono essere realizzati differenziali positivi e negativi in dipendenza di un evento incerto”.
La lettura speculare di tale norma consente d’individuare l’elemento qualificante i redditi “diversi”, tale norma infatti:
– nella prima parte definisce positivamente i redditi di capitale come proventi derivante da rapporti aventi per oggetto un impiego di capitale;
– nella seconda esclude dall’ambito dei redditi di capitale (e quindi si comprendono nell’ambito dei redditi diversi) quei proventi che, pur implicando un impiego di capitale, sono caratterizzati
dalla incertezza del risultato in quanto possono dar luogo a differenziali positivi e negativi.
Posta la natura finanziaria dei redditi diversi rivenienti da valute estere, è possibile valutare se il possesso delle crypto-asset sia o meno soggetto alla disciplina sul monitoraggio fiscale. In
base a tale normativa “le persone fisiche […] residenti in Italia che, nel periodo d’imposta, detengono investimenti all’estero ovvero attività estere di natura finanziaria, suscettibili di
produrre redditi imponibili in Italia, devono indicarli nella dichiarazione annuale dei redditi” (art. 4, comma 1, D.L. n. 167/1990).
Al riguardo, si potrà giustamente osservare che sotto un profilo fattuale le valute virtuali non costituiscono attività detenute all’estero, parimenti occorre rilevare che la finalità del
monitoraggio fiscale è di dare concreta attuazione al principio della world wide taxation, pertanto, ove l’attività finanziaria non sia depositata in Italia si ritiene comunque che la
disciplina in esame trovi applicazione.
In sede di risposta ad interpello (risposta all’interpello n. 956-39/2018), l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che “poiché alle valute virtuali si rendono applicabili i principi che regolano le
operazioni aventi ad oggetto valute tradizionali […] anche le valute virtuali devono essere oggetto di comunicazione attraverso il quadro RW, indicando alla colonna 3 (“codice
individuazione bene”) il codice 14 – “Altre attività estere di natura finanziaria” […] Il controvalore in euro della valuta virtuale detenuta al 31 dicembre del periodo di riferimento deve essere
determinato al cambio indicato a tale data sul sito dove il contribuente ha acquistato la valuta virtuale”.
In ossequio al carattere a-territoriale delle valute virtuali, l’Agenzia delle Entrate non specifica quale “codice Stato estero” indicare nel quadro RW. Nel caso in cui le criptovalute
siano detenute per il tramite di un exchange, si potrebbe indicare il codice del Paese presso cui si trova il conto corrente estero della piattaforma sul quale è stato trasferito il denaro
successivamente convertito in valuta virtuale.
Invece, nel caso in cui le criptovalute siano detenute su un wallet privato le istruzioni per la compilazione del quadro RW delle dichiarazioni dei redditi del 2021 precisano che l’indicazione
del “codice Stato estero” non sia obbligatorio.
La localizzazione delle criptovalute assume particolare rilevanza, oltre che per una corretta compilazione del quadro RW, anche ai fini:
– della determinazione delle sanzioni applicabili in caso di omessa o parziale compilazione del quadro RW:
(i) dal 3% al 15% del patrimonio per i paesi collaborativi, dal 6% al 30% del patrimonio per gli altri paesi;
(ii) dal 120% al 240% delle maggiori imposte dovute;
– dell’applicazione o meno della disciplina del “raddoppio dei termini” dell’accertamento per le attività finanziarie detenute in Paesi non collaborativi.
Pertanto, in assenza di una presunzione legale di detenzione legale dei patrimoni in cryptovalute in paesi non collaborativi, in caso di omessa compilazione del quadro RW si applicano le
sanzioni nella misura minima prevista per i paesi collaborativi e non si applica il raddoppio dei termini.
A tale riguardo, recentemente la Corte di Giustizia UE (C-788/19) ha contestato alla Spagna la violazione del principio della libera circolazione dei capitali ad esito della locale normativa che
obbliga i soggetti fiscalmente residenti in Spagna a dichiarare i loro beni o i loro diritti situati all’estero. In particolare, la Corte sotto un profilo sistematico giustifica tale disciplina in base
alla necessità di garantire l’efficacia dei controlli fiscali e contrastare l’evasione e l’elusione fiscali in quanto, nonostante l’esistenza di meccanismi di scambio di informazioni o di
assistenza amministrativa tra gli Stati membri, il livello delle informazioni di cui questi ultimi dispongono relativamente agli attivi che i loro residenti fiscali detengono all’estero è
complessivamente inferiore a quello di cui essi dispongono in meno agli attivi situati nel loro territorio. Tuttavia, l’esame della Corte rivela che la normativa spagnola eccede quanto
necessario per conseguire detti obiettivi:
– in primo luogo, la Corte ritiene che la Spagna sia venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza della libera circolazione dei capitali, avendo previsto come conseguenza
dell’inadempimento (o dell’inadempimento inesatto o tardivo) l’assoggettamento a imposta dei redditi non dichiarati corrispondenti al valore di tali attivi come “plusvalenze patrimoniali non
giustificate”, senza possibilità, in pratica, di beneficiare della prescrizione;
– in secondo luogo, la Corte ritiene che la Spagna sia altresì venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza della libera circolazione dei capitali ad esito di un apparato sanzionatorio
che prevede una sanzione del 150% dell’importo dell’imposta evasa per l’inadempimento (o per l’inadempimento inesatto o tardivo) che può essere cumulata con sanzioni forfettarie che si
applicano a ciascun dato o a ciascuna categoria di dati mancanti, incompleti, inesatti o falsi che devono essere indicati. La Corte contesta la natura estremamente repressivo del cumulo di
tali sanzioni che in numerosi casi può portare l’importo complessivo delle somme dovute dal contribuente ad oltre il 100% del valore dei suoi beni o dei suoi diritti all’estero con un evidente
contenuto espropriativo che introduce un pregiudizio sproporzionato alla libera circolazione dei capitali.
È evidente che le critiche evidenziate alla sentenza sopra citata in merito al carattere repressivo dell’apparato sanzionatorio spagnolo, potrebbero essere facilmente contestate
anche nei confronti del sistema sanzionatorio nazionale legato agli obblighi di compilazione del modello RW estesi ai beneficiari effettivi e ai delegati sui conti.
Anche in questo caso, a fronte di un’unica violazione, l’apparato sanzionatorio complessivo può tradursi in una sostanziale espropriazione del contribuente con connesso violazione del
principio di proporzionalità riferito alla libera circolazione dei capitali.
Disciplina degli utility token Gli utility token sono emessi da una società (tramite un cd. White paper) con l’obiettivo di raccogliere fondi in criptovalute per la realizzazione di un progetto specifico e consentono al possessore di ottenere beni ovvero servizi dalla società emittente.
I titolari dei token potranno restituirli in qualsiasi momento alla società emittente per fruire dei beni e servizi che la stessa è autorizzata a vendere.
L’acquirente potrà cedere il token a terzi, a fronte di un corrispettivo in valuta corrente o valuta virtuale.
La società emittente potrà decidere di cedere a terzi i token detenuti, ricevendo in cambio valuta corrente o valuta virtuale.
Inizialmente, l’Agenzia delle Entrate, in sede di risposta a interpello n. 14 del 2018, aveva chiarito che ai fini IVA, gli utility token possono essere assimilati ai voucher, quali strumenti che
conferiscono al detentore il diritto a beneficiare di determinati beni e/o servizi.
Conseguentemente, l’IVA sarà esigibile al momento della spendita del voucher, ossia all’atto dell’acquisto del bene/servizio che lo stesso incorpora (i.e. consumo finale), mentre l’emissione
e la circolazione dei voucher, configurando una movimentazione finanziaria e non un’anticipazione della cessione/prestazione cui i “buoni” stessi fanno riferimento, non sarà
rilevante ai fini del tributo (risoluzione 22 febbraio 2011, n. 21/E).
Il cambio tra valuta virtuale versus valuta tradizionale, e viceversa, sarà esente ai fini IVA (risoluzione 2 settembre 2016, n. 72/E).
Più di recente la stessa Agenzia (risposta a interpello n. 110/2020), con riferimento al caso in cui gli utility token consentivano l’accesso ai servizi della blockchain forniti da una start up, ha
individuato una disciplina differente, assimilando l’acquisto del token verso corrispettivo di euro ad un pagamento per l’accesso a tali servizi. Pertanto, risultando integrato il momento di
effettuazione della prestazione di servizi (art. 6, D.P.R. n. 633/72), l’operazione risulta rilevante ai fini IVA.
L’Agenzia delle Entrate giustifica la diversa disciplina adottata sostenendo che nel caso di specie il token non fosse assimilabile:
– a una “valuta virtuale” in quanto in sede di emissione ha finalità differenti da quella di “mezzo di pagamento” (contrariamente a quanto espresso dalla Corte di Giustizia UE, C-264/14);
– ai voucher, in quanto nel caso esaminato il token non dà diritto ad effettuare un successivo acquisto di beni e di servizi, ma il suo acquisto è esso stesso considerato alla stregua
dell’acquisto di un servizio di accesso alla blockchain, assoggettabile ad IVA all’atto del pagamento.
In tale interpretazione, ritorna l’approccio fattuale che l’Amministrazione aveva adottato nel qualificare le valute virtuali in base al profilo soggettivo della fiducia di chi le riceve come
mezzo di pagamento (risoluzione n. 72/E/2016) già utilizzato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia UE, per assimilare le valute digitali ai mezzi di pagamento che si fondano sulla fiducia
di chi li accetta. Si vedrà in seguito che tale approccio è stato utilizzato dai paesi di common law non già per qualificare il fenomeno delle valute digitali ma per disciplinarne gli effetti
relativi.
Lo scambio d’informazioni (DAC 8)
Lo scorso 2 giugno 2021 la Commissione Europea, ha deciso di avviare una consultazione pubblica, con l’obiettivo di ampliare e rafforzare il campo di azione della cooperazione
amministrativa, al fine di garantire un’adeguata tassazione dei redditi e dei ricavi relativi ai nuovi mezzi di pagamento e di investimento, ed in particolare le cripto-attività e la moneta
elettronica.
In particolare, la consultazione è diretta a comprendere l’utilizzo da parte degli utenti dei servizi che hanno ad oggetto cripto attività, la tipologia di servizi che vengono offerti agli utenti e la
possibilità che i servizi e le attività che hanno ad oggetto crypto-attività siano tassati nell’ambito dei diversi stati membri.
Nell’ambito di tale indagine emerge la possibilità che i fornitori di servizi che hanno ad oggetto cripto attività (exchange), che già sono soggetti agli obblighi antiriciclaggio, siano soggetti
anche agli obblighi di comunicazione a fini fiscali nella sostanza analoghi a quelli ad oggi gravanti sugli intermediari in merito ai meccanismi transfrontalieri volti ad ottenere un
vantaggio fiscale potenzialmente indebito (DAC 6).
A fronte della capacità delle crypto asset di eludere le regole della trasparenza fiscale, incluso il CRS, il G20 ha dato indicazioni all’OCSE di includere tali attività nell’ambito dello scambio di
informazioni.
A tale fine, il 22 marzo 2022 è stata pubblicata in consultazione la bozza del Regolamento CARF (Crypto Asset Reporting Framework & amandments to CRS – CARF) le cui regole ruotano
attorno a quattro elementi chiave:
– l’ambito di riferimento delle cripto-asset che include i beni che possono essere detenuti e trasferiti in modo decentralizzato, senza l’intervento di intermediari finanziari tradizionali,
compresi gli stablecoins, i derivati emessi sotto forma di un Crypto-Asset e alcuni token non fungibili (NFT). Da tale ambito sono esclusi:
a) gli utility tokens, collegati all’acquisto di beni e servizi e per questo portatori di un limitato rischio fiscale;
b) le valute digitali che saranno emesse dalle banche centrali.
– gli intermediari soggetti alla raccolta dei dati e ai requisiti di segnalazione (exchange, broker, wallet service providers e dealers in Crypto ed operatori ATM in Crypto);
– le transazioni soggette a segnalazione e le informazioni da segnalare in relazione a tali transazioni. Le informazioni rilevanti riguardano:
a) gli scambi da Crypto a Crypto;
b) gli scambi da Crypto a valuta FIAT;
c) i pagamenti in Crypto;
d) i trasferimenti di Crypto.
– gli obblighi di due diligence che devono essere adottati dagli intermediari soggetti per individuare l’identità e la residenza fiscale degli utilizzatori di crypto. Tali obblighi si fondano
sull’attestazione di adeguata verifica predisposta ai fini AML e sono conformi agli analoghi obblighi previsti ai fini CRS.
Leggi anche Crypto-asset e trasparenza: in pubblica consultazione le proposte dell’OCSE Analisi comparata dei redditi rivenienti da cryptoattività
In mancanza di una disciplina positiva del fenomeno, diventa rilevante esaminare come esso sia stato qualificato dalle giurisdizioni estere. Dalla ricerca svolta emerge che alcuni paesi
qualificano le valute digitali alla stregua di attività finanziarie; parimenti, a prescindere dalla natura dell’attività la disciplinano differentemente a seconda che essa sia detenuta con finalità
di investimento o speculative. Interessante evidenziare l’esperienza UK, che in un approccio da common law, non si pone il problema di qualificare la natura dell’attività ma disciplina il
fenomeno in funzione dell’utilizzo che il contribuente fa dei token.
In particolare, dalla ricerca svolta è emerso quanto segue:
– Olanda: assimilati ai capital gain su attività finanziarie (rendimento forfettario 5,53% e tassazione separata 1,71%);
– Irlanda: assimilati ai capital gain su attività finanziarie (soggetti all’imposta personale – territorialmente non rilevanti per i NON-DOMICILED);
– Ungheria: assimilati ai capital gain su attività finanziarie (soggetti alla sola imposta personale 15% ma non ai contributi sociali 15,5%);
– Germania: assimilati ai capital gain su attività non finanziarie (soggetti a tassazione ordinaria ed esenti se venduti entro un anno dall’acquisto);
– UK: l’HMRC non considera i cryptoasset come valuta o denaro. Il trattamento fiscale di tutti i tipi di token dipende dalla natura e dall’uso del token e non dalla definizione del token;
– Francia: assimilati ai capital gains su attività non finanziarie (Soggetti a tassazione ordinaria);
– Lussemburgo: assimilati ai redditi diversi su beni immateriali (Soggetti a tassazione ordinaria ed esenti se venduti entro sei mesi dall’acquisto);
– Austria: capital gains soggetti ad imposta sostitutiva del 27,5%;
– US: assimilati ai capital gains su attività (breve periodo a imposta ordinaria, lungo periodo imposta 15% o 20%).