di Giovanni Perani
Le notizie sono solo la prima bozza della storia.
Alan Barth (giornalista del «Washington Post»)
Sono argomenti più o meno recenti e molto dibattuti la privacy, la diffusione dei dati personali e le fake news. La sensazione è che nella percezione collettiva tali problematiche non comportino alcuna ricaduta di rischio sulle vite dei singoli, come se fosse qualcosa di esterno, lontano, privo di gravi e reali conseguenze.
Percezione, verità, manipolazione, propaganda e plagio, al contrario, hanno una storia oggettiva, mutevole e pregna di effetti.
La percezione. Secondo Yuval Noah Harari, storico, saggista e professore dall’afflato inusuale e lungimirante, la differenza fra l’essere umano e gli altri esseri animali risiede principalmente nella percezione.[1] Gli animali, quale più quale meno, sono provvisti di percezione soggettiva e oggettiva. Nell’uomo se ne assomma una terza, che viene chiamata “intersoggettiva”. Le api per esempio, proprio in virtù dei primi due tipi di percezione, sono capaci di sviluppare un ottimo sistema di interazione, organizzato su base gerarchica, che funziona in modo esemplare al fine di costituire una società coesa e tesa al bene comune, l’alveare. Ma se l’alveare rimane una struttura immobile nel tempo e si interfaccia unicamente con la realtà oggettiva e soggettiva, noi uomini – possedendo anche la dimensione intersoggettiva, che consiste nella capacità di creare delle “storie collettive”, le quali, diventando intersoggettivamente condivise, generano e creano la realtà del presente – abbiamo dato vita a una società la cui narrazione è uno storico in divenire.
In questa prospettiva si inserisce l’esercizio proposto dal filosofo Bryan Magee in una sua recente pubblicazione.[2] Immaginiamo di suddividere la storia passata in porzioni ciascuna corrispondente a cento anni; poi immaginiamo che ciascun arco di secolo corrisponda alla vita di una persona, semplicemente un po’ longeva. A questo punto dovremmo constatare che dieci vite fa eravamo nel bel mezzo delle conquiste normanne e che fra noi e la nascita di Gesù Cristo, cioè l’anno zero, intercorrono solo venti vite.
Facciamo su questa falsa riga un altro esercizio teorico e fissiamo un punto sulla carta geografica nel centro, per esempio, dell’odierna città di Berlino. Come ovunque, anche in quell’area così ristretta si sono susseguite le vite dei nostri venti antenati, nella fattispecie persone che, una dopo l’altra, hanno venerato divinità legate al mondo della caccia, compiuto sacrifici animali per propiziarsi la buona sorte, condotto battaglie a difesa di corone, combattuto eretici e bruciato streghe, conquistato mondi, creduto nella propaganda nazista e poi, forse, trovato la morte nel tentativo di superare il Checkpoint Charlie.
Le emozioni, le sensazioni e i destini di tutti quei nostri antenati sono reali. Le motivazioni legittimate dal relativo contesto, le aspettative generate e i doveri adempiuti appaiono storicamente vincolanti. Così è segnato il vissuto. Ma si visse, si credette, si uccise e si morì in nome di qualcosa che altro non era che la narrazione del momento.
Negli alveari questo non succede.
La percezione diventa intersoggettivamente condivisa passando anche dal suggerito, che è un agente esterno a noi. Un tempo le informazioni che generavano il percepito venivano trasmesse attraversi i racconti e le memorie dei più anziani, alimentando le credenze. In seguito, la stessa funzione è stata affidata alla scrittura di testi immutabili. Molto più recentemente le informazioni sono state veicolate nella società in modo più veloce e capillare, prima a mezzo stampa, poi anche tramite radio e televisione. Ad oggi la rete Internet costituisce uno dei principali accessi all’informazione – e dunque percezione –, sia che si tratti di quella divulgata da fonti ufficiali sia di quella diffusa tramite il passaparola dei social network.
Se la percezione tramite informazioni suggerite crea uno scenario legittimo che poggia su basi intersoggettive, risulta evidente che le informazioni hanno un potere fondante sulla soggettività e sull’oggettività del reale e della storia. Perciò la correttezza delle informazioni è di massima importanza. Tuttavia, “correttezza” è un termine complesso, dal momento che sottintende una versione reale e verosimile.
Ma esiste la verità?
La verità. Durante una lezione, un mio professore postulò che la verità non esiste perché altro non è che la deformazione prospettica determinata dall’angolo di visuale dell’osservatore. Dunque, esisterebbero più verità, oppure la verità ha sfaccettature poliedriche e ciascuna di esse ha un suo riflesso, per citare il classico Uno, nessuno, centomila di Pirandello. Diciamo, più semplicemente, che la relazione oggettiva di un evento concreto ha una tenuta esplicativa di circa una decina di parole. Se i giornalisti o gli organi d’informazione di rete si limitassero alle informazioni basilari su fatti avvenuti, non avremmo quasi nulla da leggere. Le parole e la lettura del fatto narrato suggeriscono una sorta di interpretazione la quale, pur ammesso che non sia distorta, trasla in parte il fatto da oggettivo a soggettivo. Ma si tratta di scienza delle opinioni ed è un esercizio legittimo, purché svolto con onestà intellettuale ma soprattutto in regime di pluralità d’informazione.
Se si confrontassero i quotidiani più partigiani, potremmo constatare come, sebbene le premesse della notizia in sé siano identiche, la conclusione spesso sia opposta e legittimante le prospettive differenti. Laddove non vi sia scelta, quando cioè l’organo è unico e controllato, l’informazione è totalitaria, da regime, di fronte alla quale solo la controinformazione è in grado di creare il dubbio.
La manipolazione. La calunnia è un venticello, come sussurra una nota opera rossiniana. Molti ritengono che le fake news siano notizie falsate con modalità talmente evidenti che possono attecchire solamente sul terreno della creduloneria. Non v’è dubbio che è stato condiviso sui social un innumerevole numero di notizie di questo genere, peraltro spesso supportate da falsi filmati generati ad hoc, ma d’altro canto facilmente identificabili e soprattutto facilmente smentibili.
Dobbiamo però considerare che, posta la possibilità di un margine conversazionale di manovra nella rappresentazione del vero, una notizia riferita potrebbe anche contenere una buona parte di vero e una piccola parte di falso, e capace in questo modo di proporre una prospettiva deformante che crea a priori un pregiudizio d’opinione. Dunque, maggiore ingannevolezza a fronte di maggiore credibilità.
La via manipolatoria, se applicata su larga scala o pianificata selettivamente su precisi individui, ha l’incredibile potere di mettere in atto una propaganda deviante delle masse.
La propaganda. Un termine ricco di implicazioni è quello di “persuasione”. Il confine tra persuasione e propaganda è il confine delle onde del mare sul bagnasciuga. Già negli anni Quaranta il professor Harwood L. Childs definì la propaganda come «l’attività di disseminazione di idee e informazioni con lo scopo di indurre a specifici atteggiamenti e azioni».[3] Philip M. Taylor, professore di Comunicazione internazionale all’Università di Leeds, la descrive come il «conscio, metodico e pianificato utilizzo di tecniche di persuasione per raggiungere specifici obiettivi atti a beneficiare coloro che organizzano il processo».[4]
La propaganda è sostanzialmente una tecnica, funzionale a creare una realtà percepibile collettiva, o soggettiva, tramite artifici manipolatori che viziano la realtà allo scopo di portare utile a chi realizza la manipolazione.
Oggi il “sistema informazione” è in migrazione sempre più massiccia verso il web. Sia questo inteso come canali informativi ufficiali, per esempio siti giornalistici accreditati, sia tramite il sistema dei social network. Le informazioni rimbalzano in un gioco di specchi all’infinito e l’eco che creano diventa, quando ampiamente condivisa, una realtà intersoggettiva accettata, l’inizio della storia.
Il Global Digital 2018, un’accurata indagine condotta da We Are Social in collaborazione con Hootsuite, analizza i trend del fenomeno dei social media e la loro diffusione nel mondo: inutile dire che la crescita è esponenziale e le nuove generazioni sempre più aderiscono al nuovo mondo di comunicazione. A un fermo immagine del gennaio 2018, la popolazione mondiale si attestava intorno a 7,593 miliardi di individui, di cui 4,21 miliardi erano utenti Internet e 3,196 miliardi erano attivi sui social.
Le informazioni scambiate in questo contesto virtuale sono inimmaginabili e procedono sia in entrata sia in uscita. Dobbiamo quindi distinguere i due canali. Le notizie in entrata nel web, che raggiungono tutti i circa 4 miliardi di utenti, le chiameremo “esogene”; definiremo invece “endogene” tutte le informazioni che gli utenti, nell’interagire con il web, lasciano lungo la scia della loro navigazione.
Ebbene, la scia delle informazioni endogene che rilasciamo, con particolare rilievo nel mondo dei social, traccia inequivocabilmente il nostro profilo, e lo identifica in modo così netto che l’Università di Cambridge ha dimostrato che, analizzando le nostre attività su Facebook, si è in grado di delineare il nostro imprinting psicologico con discreta certezza.[5] Pare che al decimo “like” il software ci conosca più di un collega, al centocinquantesimo più di genitori e fratelli e oltre i trecento quasi più di quanto noi confessiamo a noi stessi.
Questa cessione di dati che attengono alla nostra privacy è altamente pericolosa. Significa cedere la chiave più intima della nostra personalità a terzi. Per fare un parallelo, è come se, dopo dieci anni di analisi, il nostro psicologo consegni traccia delle nostre vulnerabilità più profonde e delle nostre più segrete aspirazioni a venditori o imbonitori esterni. Chi asserisce di non essere interessato al problema della privacy o non conosce il problema o non ne comprende le implicazioni. Mi piace ricordare a tale proposito quanto affermato da Edward Snowden: «Sostenere che non sei interessato al diritto sulla privacy perché non hai nulla da nascondere non è diverso da dire che non ti interessa la libertà di espressione perché non hai nulla da dire».[6] Ma non si tratta solo di questo.
Dunque, focalizzandoci sull’essenza di quanto fin ora esposto, la realtà intersoggettiva degli esseri umani si crea anche tramite la narrazione delle informazioni. Ebbene, se la nostra società e la nostra storia sono anche il risultato della narrazione intersoggettiva della nostra collettività, se la verità è in qualche modo suscettibile di interpretazione e se noi cediamo le chiavi delle nostre vulnerabilità a terzi, quale spazio ci resta per l’autodeterminazione?
La libertà è uno dei caposaldi del nostro vivere. Il diritto alla libertà si coniuga con il diritto all’autodecisione. D’altra parte, è evidente che le eventuali attività persuasorie atte ad influenzare l’opinione pubblica potrebbero essere calibrate in modo inimmaginabile. Facciamo l’esempio di Google. Tutte le volte che lo interroghiamo lasciamo traccia della nostra ricerca. Questa traccia, tramite il browser web di Google, Google Chrome, opportunamente elaborata da un algoritmo (Recommendation Engine)[7] è in grado di riconoscere i nostri desiderata, le nostre paure, le nostre convinzioni politiche, e ci cuce addosso il profilo che sarà permeabile ad annunci, informazioni e notizie.
Nessun allarmismo né alcuna teoria del complotto, s’intende.
Si tratta di capire in quale misura il megafono del web globalizzato abbia il potere, un tempo non disponibile, di ampliare l’effetto della propaganda, tanto più che, se dotato di un cannocchiale e di un mirino, può consentire una maggiore, e più preoccupante, incisività. Come controbilanciare un tale squilibrio, che va così velocemente ampliandosi? E, soprattutto, come correggere la rotta senza creare maggior danno?
Gli strumenti che sono in nostro possesso attengono al mondo delle regulations, oppure, ancor meglio, al sottile sistema di controbilanciamento dell’autoregulation. Ogni epoca, in realtà, ha messo in campo i suoi migliori strumenti per raggiungere il vivere “preferibile” in quella data società, società il cui fine, in generale, dovrebbe sempre rimanere quello di una coesistenza via via più giusta, etica e libera.
Alcuni soggetti stanno valutando l’opportunità di una sorta di chiusura del sistema web, mediante un’intensificazione di controlli e restrizioni. È un’“aria” che soffia su molti Paesi, a volte leggera, a volte più impetuosa. Illuminante in tal senso sono i risultati dell’attività condotta dalla società Freedom House, un’organizzazione non governativa e indipendente che monitora e svolge ricerche sulle libertà nei vari angoli del mondo, pubblicando attendibili report annuali.[8]
A volte la volontà di porre delle briglie alla libera informazione parte da intenti legittimi: proteggere il copyright, per esempio, oppure tutelare gli utenti dalle fake news, arginare il cyberbullismo e così. Fondamentale, sempre, non perdere di vista la meta che è e resta, a mio avviso, la tutela della privacy e del libero autoconvincimento.
Analizziamo uno specifico caso. Qualche mese fa una vivace discussione ha animato la politica e buona parte del mondo dei liberi pensatori intorno alla recente proposta di riforma del web avanzata dalla Commissione giuridica europea, il cui intento era varare una nuova direttiva che tutelasse, e uniformasse nelle regole, il diritto d’autore nel mercato unico digitale europeo.
Con uno scarto relativamente basso – direi a sorpresa perché è molto raro che ciò accada – il Parlamento europeo con 318 voti contrari, 278 favorevoli e 31 astenuti ha respinto nella riunione plenaria del 5 luglio la negoziazione elaborata e proposta dalla commissione giuridica. Il 12 settembre, a Strasburgo, si riaprirà il dibattito
Al fine di vigilare sulla nostra “democrazia informativa” e comprendere le perplessità che questa proposta di legge ha suscitato, bisogna far chiarezza innanzitutto sulle ragioni dei fautori e su quelle degli oppositori, e relative dinamiche.
Il 26 agosto il direttore dell’agenzia France Presse di Baghdad, Sammy Ketz, scrive una lettera aperta[9] ai parlamentari europei e alla stampa, in cui espone con toni accorati le sue legittime preoccupazioni qualora non si giungesse a una qualche di tutela del copyright. Impossibile non coglierne la spinta sincera e disinteressata.
Se si riconosce una vulnerabilità del sistema, è però necessario capire se la cura può essere efficace o, viceversa, costituire una minaccia. In tal senso deve essere oggetto di riflessione e attenta analisi la lettera inviata il 12 giugno scorso al presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani,[10] nella quale emeriti ricercatori di tutto il mondo – tra cui Vinton Gray Cerf, uno degli inventori del protocollo di base di Internet, e Tim Berners-Lee, padre del World Wide Web – mettono in guardia dai possibili effetti che potrebbe comportare la limitazione della libertà della rete, così come ora la conosciamo.
Qual è stato l’epicentro della questione, quello che ha suscitato tanto fremito nel web di fronte alla nuova proposta di riforma? L’articolo 13, sul copyright. In base a tale articolo, infatti, alcune piattaforme del web di libero accesso fra utenti – blog, social network, forum, ma per intenderci anche Wikipedia – dovrebbero dotarsi di strumenti di verifica preventiva dei materiali da postare, una sorta di filtri di caricamento in upload, sia che si tratti di fotografie, sia testi o audio. L’intento è porre una sorta di sbarramento affinché ciò che è protetto da copyright non possa in alcun modo circolare in modo autonomo. Il sistema di filtri adatti ad elaborare in modo automatico e istantaneo quell’incredibile mole di materiale, secondo i più critici oppositori, avrebbe costi pressoché proibitivi per piccole, medie e gratuite piattaforme, e ciò potrebbe comportare un piccolo delitto perpetrato ai danni della democrazia, un attentato alla pluralità dell’informazione. Un favore al consolidamento di monopoli di grosso calibro, peraltro già esistenti, e già ingombranti.
Attualmente un sistema analogo a quello auspicato come filtro di sbarramento dall’articolo 13 è Content ID.[11] Si tratta di un algoritmo, utilizzato per esempio da YouTube, che ha la straordinaria capacità di consultare in modo velocissimo un gigantesco database e di bloccare preventivamente quanto venga riconosciuto privo di autorizzazione.
Ma, pur ammettendo la correttezza del fondamento giuridico, le società incaricate di controllare i contenuti con quale criterio creerebbero la griglia di sbarramento? Si bloccherebbe solo il materiale sottoposto a copyright o si potrebbe aprire lo spazio per una interpretazione? Pensiamo alla satira: quale sarebbe il suo confine? Già Giovenale si chiedeva: «Quis custodiet custodes?».
Come abbiamo visto, i confini tra il reale e il narrato sono combacianti se la rappresentazione del vero passa attraverso un consenso collettivo intorno la storia, intesa come narrazione del presente in condivisione dei fatti. Esisterebbe ancora la società democratica se accettassimo che una griglia di natura privata, o anche pubblica, abbia il potere di decidere all’origine quali contenuti sono liberi di circolare e quali no? Il tentativo della tutela del copyright può far pagare alla società un prezzo così alto?
Un vecchio detto recita che l’inconveniente di vivere è morire. Il prezzo della libertà è richiesto sicuramente in molte scelte.
Altro punto caldo del dibattito è l’articolo 11, che propone una sorta di tassa che remuneri l’autore di un contenuto protetto da copyright da parte di chi lo diffonde nel web. Difficile non condividere il punto di partenza ma, nel mondo reale, una norma impatta sulla società e genera a ricaduta effetti collaterali che ne modificano l’humus.
Le argomentazioni sostenute dai più scettici avanzano sospetti legittimi. Tale articolo obbligherebbe chiunque pubblichi materiale protetto da copyright a munirsi di una specifica licenza e riguarderebbe non solo la riproduzione per esempio di un intero articolo, ma anche di una piccolissima parte o semplicemente un rimando tramite link. L’articolo 11 è indiscriminatamente rivolto a tutto il web.
Realtà piccole o medie del web ed editori indipendenti, seri, scrupolosi e disposti ad accogliere in linea di principio i maggiori costi, si muoverebbero con i guanti di velluto e probabilmente per prudenza ne rimarrebbero sempre più imbavagliati, in uno strenuo controllo preventivo al fare informazione o ripostare parte di notizie, per il timore di contravvenire alla direttiva. Teniamo a mente che le notizie hanno un tempo di vita molto breve, trascorso il quale vengono travolte dalle nuove.
Viceversa, il divulgatore di notizie sensazionalistiche e di “semibufale”, che per loro natura corrispondono al miele per i curiosi del web, sarebbe esentato dal pagare la Link Tax, perché diffonde informazioni per loro natura libere da copyright, e per di più lo farebbe senza alcun rischio legale. Perciò la norma premierebbe la veicolazione di notizie senza alcun controllo di qualità, dissuadendo i più onesti dal continuare nella loro attività.
Ma non solo: dal momento che il divieto sarebbe anche indirizzato ai singoli cittadini, che mediamente non sono in grado di strutturarsi per ottemperare alle disposizioni dell’articolo 11, ci troveremmo un web ingessato e surreale in cui la libera circolazione delle notizie, la condivisione e la fluidità mediale sarebbero precluse. E questo sconcerta.
Vi è poi la convinzione, condivisibile, che questa norma spinga i colossi dei social network e gli aggregatori di notizie a indicizzare solo i contenuti esenti da copyright, creando al proprio interno un laboratorio di news che eviti eventuali contenziosi legali e maggiori costi. Ciò potrebbe portare a dei monopoli dell’informazione e di qui ad altre, assai più pericolose, problematiche.
D’altronde, viste la potenza e la capacità del web di orientare le opinioni dei suoi utenti, è evidente che dovrà esserci un aggiornamento nelle norme, nel rispetto dell’impianto liberale della nostra società. Credo che la soluzione, in un Paese democratico, possa risiedere nella tracciabilità delle notizie giornalistiche più che nella censura e che il meccanismo debba essere più premiante che mortificante a priori. È recente il report stilato da un gruppo di esperti, e presentato in Commissione europea,[12] che riassume in modo esemplare le criticità e le necessità di una buona e corretta informazione. Esso contiene espressamente anche il monito a non inseguire linee semplicistiche e la raccomandazione di non prestare il fianco ad alcun tentativo di censura pubblica o privata.
Di recente la Commissione Europea ha annunciato che applicherà la tecnologia blockchain come coadiuvante per combattere la diffusione di fake news e facilitare la tracciabilità delle informazioni.[13] Ne scaturiranno sicuramente effetti positivi: essendo immutabile e certa per sua natura, la blockchain ci consentirà di preservare i contributi e verificarne la fonte, con conseguente aumento del margine di trasparenza e dunque di affidabilità. Auspichiamo che il meglio del web, opportunamente incentivato o saggiamente non contrastato, generi tramite tale tecnologia linee indipendenti di informazione e piattaforme, di comprovata serietà, di compartecipazione pubblica open-source.
Ma la tecnologia dei “blocchi”, può davvero porre rimedio alle false informazioni?
La blockchain conserva informazioni. Anche le notizie false, o quelle che falsano le informazioni, risulteranno iscritte nella blockchain, ma senza alcun tipo di “validazione”. Validare, certificare e tracciare l’“albero genealogico” delle informazioni è sicuramente una garanzia, ma come e chi inserirà le informazioni corrette nella blockchain? Che garanzie ci sono?
La blockchain da sola non sembrerebbe essere sufficiente. Ma per esempio, in un ipotetico portale decentralizzato di informazione retribuita, si può introdurre un particolare token, che ripaghi le notizie di qualità; possono anche attivarsi controllori indipendenti che analizzino a caso e periodicamente il contenuto degli articoli, ricevendo a loro volta delle valutazioni. Insomma, una piattaforma per qualche verso simile a Steemit.[14] Senza dire che un portale di notizie che gira su blockchain può utilizzare l’open-source, e sarebbe perciò trasparente e aperto al controllo pubblico.
Proprio perché non siamo un alveare, la storia è il nostro futuro e dobbiamo pretendere la libertà di una scrittura intersoggettiva condivisa e non manipolata. Come diceva Alan Barth, «le notizie sono solo la prima bozza della storia».
[1] Yuval Noah Harari, Homo Deus. Breve storia del futuro, Bompiani, Milano 2017.
[2] B. Magee, Ultimate Questions, Princeton University Press, Princeton 2016.
[3] H.L. Childs, Propaganda, in Microsoft Encarta Encyclopedia 1998.
[4] P.M. Taylor, Munitions of the Mind: A History of Propaganda from the Ancient World to the Present Day, Manchester University Press, Manchester 2003, p. 6.
[5] Cfr. https://www.telegraph.co.uk/news/science/science-news/11340166/Facebook-knows-you-better-than-your-members-of-your-own-family.html
[6] E. Snowden in Just days left to kill mass surveillance under Section 215 of the Patriot Act. We are Edward Snowden and the ACLU’s Jameel Jaffer. AUA., https://www.reddit.com/r/IAmA/comments/36ru89/just_days_left_to_kill_mass_surveillance_under/, 21 maggio 2015; parzialmente citato in Z. Beauchamp, The 9 best moments from Edward Snowden’s Reddit Q&A, https://www.vox.com/2015/5/21/8638251/snowden-reddit, 21 maggio 2015.
[7] Cfr. https://www.analyticsvidhya.com/blog/2018/06/comprehensive-guide-recommendation-engine-python/
[8] Cfr. https://freedomhouse.org/report/freedom-net/freedom-net-2017
[9] Cfr. https://www.lemonde.fr/idees/article/2018/08/26/accorder-a-la-presse-des-droits-voisins-en-ligne-une-question-de-vie-ou-de-mort_5346424_3232.html
[10] Cfr. https://www.eff.org/files/2018/06/12/article13letter.pdf
[11] Content ID di Google è un software che permette ai titolari di copyright di identificare e gestire facilmente i propri contenuti su YouTube. I video caricati su YouTube, infatti, vengono esaminati e confrontati con un database di file ricevuti dai proprietari stessi dei contenuti.
[12] Cfr. https://ec.europa.eu/digital-single-market/en/news/final-report-high-level-expert-group-fake-news-and-online-disinformation
[13] Cfr. https://ec.europa.eu/transparency/regdoc/rep/1/2018/IT/COM-2018-236-F1-IT-MAIN-PART-1.PDF
[14] Cfr. https://steemit.com