Francesco Rampone
Presidente Associazione Blockchain Italia
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14 novembre 2019
Smart contract, né smart né contract
Abstract
Gli smart contract, a dispetto del nome, non sono contratti, ma programmi per elaboratore, già oggetto di disciplina dalla Direttiva 2009/24/CE e dalla nostra legge sul diritto d’autore. In una diversa prospettiva, uno smart contract è un documento, ovvero una cosa che reca un segno a cui attribuiamo valore probatorio di un atto o di un fatto. Peraltro, essendo scritti in codice informatico, gli smart contract per lo più non sono intellegibili dalle parti e quindi il contenuto non può essere ricondotto ad una loro manifestazione di volontà. Peraltro, pur dovendo escludere che gli smart contract siano contratti, va comunque detto che la loro esecuzione, attraverso modalità che permettono l’identificazione degli utenti, può consentire la costituzione, modificazione o estinzione di un rapporto obbligatorio. Essi, infatti, si atteggiano ad essere l’equivalente digitale dei comuni distributori automatici, tradizionalmente ricondotti all’istituto della promessa al pubblico, ovvero considerati mezzi che favoriscono la conclusione di contratti senza accordo.
1. Introduzione
Credo che molte idee che circolano sugli smart contract siano errate, frutto del fraintendimento ingenerato dal nome loro attribuito in origine da Nick Szabo[1]. Il “peccato originale” del nome, tuttavia, non sarebbe da solo capace di spiegare perché gli smart contract sembrano essere entità inafferrabili, che sfuggono ad un chiaro inquadramento sistematico, se non si aggiunge che i molti contributi prodotti fino ad oggi, anche quelli di stampo più giuridico, non sono talora esenti da una certa retorica e finiscono per non distinguere con la dovuta enfasi il contratto dal documento, l’accordo dall’opera dell’ingegno, la forma dall’esecuzione[2].
Nel presente lavoro, in una prospettiva di diritto italiano[3], provo a fornire un inquadramento degli smart contract, finendo forse per smorzare un po’ dell’entusiasmo che li circonda e che ritengo debba essere più proficuamente rivolto alla natura distribuita delle reti peer-to-peer che li ospitano[4].
2. Un necessario cenno storico.
Smart contract e blockchain sono tecnologie partorite dalle stesse menti e sviluppate nel medesimo ambiente che, a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, potremmo definire criptoanarchico.
Nel 1994 inizia un proficuo scambio scientifico tra due cripotografi, Nick Szabo e Wei Dai, a cui in momenti successivi parteciperà anche Hal Finney (di dichiarata fede criptoanarchica, divenuto poi il percipiente del primo pagamento in bitcoin della storia)[5]. Szabo e Dai, cominciarono fin da subito ad occuparsi di smart contract[6] e criptovalute sviluppando due progetti antesignani dei bitcoin: B-Money di Dai (1998) e Bit Gold di Szabo (1998)[7].
Le soluzioni elaborate a partire da quei primi sforzi portano dieci anni dopo al giorno in cui Wei Dai e Adam Back (anche lui criptografo, inventore nel 1997 di Hashcash, un sistema proof-of-work per limitare lo spam nella posta elettronica) ricevettero una email dal misterioso Satoshi Nakamoto in cui preannunciava il progetto bitcoin ed esponeva le sue idee nel famoso paper Bitcoin: A Peer-to-Peer Electronic Cash System. Possiamo far iniziare da quel momento l’era delle criptovalute, germogliata probabilmente non dal lavoro isolato di Nakamoto – ammesso che sia mai esistito – ma dalle riflessioni maturate nell’ambiente griptografico di Szabo, Dai e Finney in ordine agli smart contract, alle e-cash e alle reti distribuite.
Questa rapida premessa storica è utile per sottolineare il fatto che gli smart contract non furono fin dalla loro origine concepiti per regolare una serie indeterminata di situazioni giuridiche, ma per essere impiegati in operazioni finanziarie come atti esecutivi di ordini di pagamento, o poco più[8].
Leggendo oggi i lavori di quegli anni, possiamo comprendere cosa in particolare gli autori intendevano per smart contract e quindi provare ad analizzarli con la lente del diritto.
3. Cos’è uno smart contract.
È lo stesso Szabo a dare una definizione – tutt’altro che chiara – di smart contract:
«A smart contract is a set of promises, specified in digital form, including protocols within which the parties perform on these promises»[9].
Queste poche parole sono precedute da una apparente spiegazione:
«New institutions, and new ways to formalize the relationships that make up these institutions, are now made possible by the digital revolution. I call these new contracts “smart”, because they are far more functional than their inanimate paper-based ancestors».
Szabo non indica specificamente a quali istituti e a quali modi di formalizzare le relazioni faccia riferimento, ma si può vagamente intuire che pensasse a soluzioni criptografiche idonee a conferire ai documenti informatici eguale valore costitutivo e probatorio dei tradizionali documenti cartacei.
Leggendo queste poche righe, si coglie molto chiaramente che l’idea che Szabo ha di contratto è assai lontana da quella che un contratto è per il diritto, e sembra invece essere assai simile a quella di documento («…inanimate paper-based ancestors»).
3.1 Contratto e documento, forma e materia.
Che Szabo sia ambiguo nella sua definizione non deve affatto sorprendere se consideriamo che nel linguaggio comune (ed egli non nasce giurista) per contratto si intendono due cose distinte: da un lato l’accordo, l’incontro di volontà tra due o più soggetti[10], con il quale questi assumono reciproci obblighi e diritti (per costituire, regolare o estinguere una situazione giuridica soggettiva, come insegna l’art. 1321 c.c.); dall’altro si intende, in senso atecnico, il documento ove è scritto il testo dell’accordo (per esempio, un foglio di carta o un file digitale)[11]. Questa ambiguità lessicale, entrata a pieno titolo nel parlato quotidiano, crea confusione quando si vuole correttamente inquadrare l’oggetto della nostra indagine. Solo la prima definizione (l’incontro di volontà) è un contratto per il diritto. L’altra, il documento, ha semmai un mero rilievo probatorio poiché ci «consente la formulazione di un giudizio circa l’esistenza di un fatto o un atto»[12], ma non è in sé un contratto, non è cioè un incontro di volontà che origina obblighi e diritti. Neanche quando il documento è sottoscritto, e quindi “accettato” dalle parti, diventa per ciò solo un contratto. Esso è e resta una cosa che reca un segno (la firma), a cui convenzionalmente attribuiamo un significato, cioè diventa la prova dell’esistenza di un fatto storico: il contratto[13].
Tenendo presente la distinzione tra contratto e documento, occorre a questo punto non confondere la forma del contratto con la res del documento. La forma, come sappiamo richiesta in alcuni casi per legge ad probationem o ad substantiam, non è la materia di cui è fatto il documento, ma il modo in cui l’atto è espresso, cioè il modo in cui la volontà intima delle parti si è manifestata. In altri termini, la forma è il mezzo con cui un essere umano si esprime, e per quanto ne sappiamo l’essere umano si esprime – secondo una classificazione rilevante per il diritto – solo in tre modi: emettendo suoni (linguaggio parlato), tracciando segni (linguaggio scritto) o compiendo movimenti (gesti o fatti concludenti)[14]. Il sostrato materiale su cui quelle forme si fissano (la cui enumerazione è vastissima e dipende solo dai limiti della nostra tecnologia), se durevole, diventa il documento che dimostra – quando fosse controverso – un accadimento passato consistente in un fatto o in una espressione di volontà attribuibile ad un determinato soggetto.
Alla luce di tutto quanto precede, lo smart contract rientra senza dubbio nella nozione di documento e non di contratto[15]. Come tale, non può neanche essere considerato forma scritta di un contratto, come invece ammette il D.L. 135/18 (il c.d. Decreto Semplificazioni 2018 di cui ci occuperemo infra).
In quanto documento, lo smart contract non è neanche intelligente. Il termine “smart” si riferisce al fatto che lo smart contract è un file eseguibile, nel senso che, al pari di qualsiasi altro algoritmo, a seconda degli input immessi, può generare output diversi eseguendo determinate operazioni impostate nel codice. Non interviene quindi alcun processo che potremmo definire smart o minimamente intelligente (diverso il caso quando gli smart contract raggiungono un grado di complessità tale da potersi definire software agent, programma sofisticato che esegue un compito o reagisce ad un input senza intervento umano e in modo pressoché imprevedibile[16]).
3.2 Lo smart contract è un particolare tipo di file.
Lo smart contract è indubbiamente considerato da Szabo innanzi tutto come un determinato set di linee di codice, niente più. Un programma per elaboratore quindi dotato o meno di creatività[17], ma in ogni caso considerato – in modo piuttosto riduttivo – con solo riguardo al corpus mechanicum e quindi unicamente come strumento che consente ad una macchina di eseguire determinate operazioni[18]. Per Szabo, in altri termini, lo smart contract è un file eseguibile su una o più macchine: è un ingranaggio digitale.
Oltre a ciò, potremmo considerare lo smart contract come documento contenente un testo contrattuale. In tale prospettiva, si tratta senz’altro di un modello di contratto quadro[19]. In esso, infatti, sono esposte le regole secondo le quali gli utenti, associando allo smart contract le rispettive identità e gli altri elementi variabili dell’accordo, possono dare esecuzione ad un determinato programma contrattuale. Lo smart contract è quindi destinato a regolare situazioni omogenee consentendo alle parti di concretizzare sul piano fattuale ogni singolo contratto che le riguarda. Senza tali input, lo smart contract resta un file inerte che esprime al più un regolamento contrattuale potenziale, ma non contiene e non dimostra in sé alcun incontro di volontà. Esso è in sostanza paragonabile ad un modulo o formulario di cui all’art. 1342 c.c. (necessariamente incompleto – per esempio, come mai si potrebbe tradurre in codice una clausola di confidenzialità, una di deroga al foro naturale o alla legge applicabile?) tanto comune nella contrattazione di massa e che consente la conclusione di contratti solo allorché le parti con una espressione di volontà inequivoca e conforme ne accettano il contenuto, non prima però di averlo riempito di contenuto indicando quantità, prezzo, termini e tutto quanto altro è atteso dal modulo per la sua compilazione[20] e dal contratto (art. 1325) per il suo perfezionamento.
Sia inteso come file eseguibile, sia inteso come testo contrattuale, lo smart contract è e resta un documento[21]. Occorre quindi vedere se come tale, esso possa assolvere una qualche funzione probatoria, ovvero se sia quantomeno in grado di dimostrare il fatto che in certo momento storico due o più soggetti abbiano manifestato una qualche volontà (evidentemente espressa in forma scritta) in odine alla costituzione, regolazione o estinzione tra loro di un particolare rapporto giuridico soggettivo.
4. (Segue) Lo smart contract come particolare categoria di documento.
Se lo smart contract appartiene più propriamente alla categoria dei documenti, dobbiamo riconoscere che si tratta di un documento del tutto particolare. In esso, infatti, non rileva il suo aspetto statico-probatorio, ma il suo aspetto dinamico-esecutivo. Esso, cioè, non è tanto inteso come prova di un fatto, ma è per lo più un mezzo di esecuzione di un’obbligazione. Potremmo dire che lo smart contract ha natura performativa, nel senso che in talune circostanze la sua compilazione (ovvero il suo completamento con l’adesione e l’inserimento degli elementi e informazioni mancanti) è al tempo stesso manifestazione di volontà e atto esecutivo degli obblighi assunti[22].
Per comprendere meglio, ricorriamo ancora una volta alle parole di Szabo che fornisce utili elementi definitori quando descrive un smart contract assimilandolo ad una vending machine, ovvero ad un comune distributore automatico[23].
Fig. 1
Per il famoso criptografo, uno smart contract altro non è che la trasposizione in termini digitali di un treno di ingranaggi; con la grande differenza che mentre un meccanismo, per quanto sofisticato, sarà sempre piuttosto rigido nella propria esecuzione, uno smart contract è estremamente flessibile. Mentre infatti una macchina distributrice come quella in figura 1, richiede una moneta di un determinato taglio e rilascia un solo chewing-gum tra quelli contenuti nella tramoggia, uno smart contract, su piattaforma che ospita un linguaggio Turing-completo, consente una varietà pressoché infinita di input, in ingresso e in uscita. Uno smart contract, quindi, eleva la complessità dell’interazione ai massimi livelli.
È questa l’intuizione di Szabo: la costruzione di una vending machine universale capace cioè di eseguire un numero indeterminato di compiti.
Così inteso, ancora una volta bisogna concludere che uno smart contract non è un contratto né propriamente un documento contrattuale, quanto piuttosto un complesso di software e hardware abilitato ad eseguire alcune istruzioni in parte preimpostate e in parte inserite dagli utenti. Lo smart contract è quindi il mezzo attraverso il quale un contratto, concluso prima e altrove[24], viene eseguito. E torniamo ancora alla caratteristica performativa dello smart contract, in quanto è un tipo particolare di documento che, com’è sua natura, non è scritto su carta, ma su un file di tipo eseguibile in una piattaforma; esso non solo rappresenta un fatto o un atto, ma è al tempo stesso il meccanismo di una vending machine virtuale. In tale prospettiva, le linee di codice non sono la forma scritta di un contratto tra le parti, ma sono gli ingranaggi di una macchina virtuale.
Ciò pone l’accento su un’altra caratteristica dirimente tra contratto e smart contract: mentre il primo è sostanzialmente un dialogo, cioè un flusso bidirezionale di informazioni tra le parti espresso in linguaggio naturale, necessariamente comprensibile ad entrambe, lo smart contract è un flusso unidirezionale di informazioni dal programmatore alla macchina, con il quale il primo istruisce la seconda su come comportarsi al ricorrere di certe circostanze. In altri termini, nello smart contract non sono descritti i reciproci obblighi e diritti delle parti come in un comune testo contrattuale. Semmai, tali obblighi e diritti sono solo ricavabili in modo indiretto attraverso la lettura delle istruzioni fornite alla macchina e dalle conseguenze della loro esecuzione in un determinato ambiente hardware e software (la piattaforma in cui lo smart contract è destinato ad operare).
Lo smart contract, insomma, non è votato ad essere il termine medio di un dialogo tra le parti, ma solo tra queste e la macchina; esso cioè non può essere semplicemente inteso come se fosse il documento di un contratto per adesione ex art. 1342 c.c. predisposto da una parte o da un terzo. Così facendo si trascurerebbe il fatto che le parti ricorrono allo smart contract, non tanto perché vogliono comunicare tra loro in modo certo e standardizzato, ma perché devono comunicare le loro volontà ad una macchina. Lo smart contract, pertanto, non può essere ricondotto alla dimensione orizzontale del dialogo tra le parti[25], poiché esso esiste e produce effetti solo nella dimensione verticale delle istruzioni che le parti (o una di loro) forniscono alla macchina[26].
Va tuttavia riconosciuto che in alcuni casi potremmo anche immaginare lo smart contract atteggiarsi al pari di un file di testo contenente vere e proprie disposizioni contrattuali aventi valore precettivo, e non semplici proposizioni grammaticali (scritte con la sintassi del codice di programmazione)[27].
Anche in tal caso, tuttavia, dovremmo escludere il più delle volte che esso possa essere considerato come un documento che costituisce prova dell’esistenza di un accordo.
5. Intellegibilità e accettazione dello smart contract.
Appurato che uno smart contract non è un contratto ma al più un particolare tipo di documento, possiamo chiederci se come tale possa essere considerato idoneo a provare l’esistenza di un contratto, e quindi essere prova attendibile delle obbligazioni reciproche assunte dalle parti. Perché ciò accada, devono ricorrere due elementi[28]: (i) intellegibilità, le parti cioè devono essere in grado di intendere il contenuto del testo del documento che deve quindi effettivamente costituire il termine medio del dialogo tra loro; e (ii) accettazione, occorre cioè che le parti abbiano in qualche modo acconsentito all’assunzione degli obblighi espressi nel documento; quest’ultimo deve cioè essere sottoscritto o presentare una qualche connessione univoca con l’identità delle parti tale che detta connessione, atto di volontà di ciascuna di esse, abbia il significato tipico di “accettazione”[29].
Quanto all’intellegibilità. Il fatto che le parti abbiano inteso il significato di un determinato smart contract può essere provato sia per espressa loro ammissione effettuata in linguaggio naturale (es.: clausole di rinvio con cui le parti dichiarano di comprendere il codice in cui lo smart contract è scritto), sia per deduzione, in considerazione delle loro comprovate competenze tecniche[30]. In entrambi i casi, si tratta di accertare se le parti erano in grado di avere accesso e di comprendere il significato del codice di programmazione con cui è scritto lo smart contract e le conseguenze della sua esecuzione, attribuendo quindi ad esso la fonte primaria delle loro obbligazioni[31].
Tornando all’esempio della vending machine, l’intellegibilità di uno smart contract può essere paragonata alla possibilità dell’utente di un distributore automatico di aprire la macchina, guardare gli ingranaggi e i circuiti che ne governano l’operatività e da tale vista comprenderne il funzionamento, ovvero cosa la macchina fa quando in essa viene inserita una moneta.
Ciò non accade nel mondo fisico, e non accade neanche in quello digitale[32].
Quanto all’accettazione. Le parti oltre a comprendere il contenuto di uno smart contract, devono, affinché esso sia per loro vincolante, consentire in modo non equivoco alla sua esecuzione. Senza accettazione, lo smart contract è un documento pressoché irrilevante a fini probatori.
A tale riguardo va sottolineato che le parti non accettano mai uno smart contract, ma più semplicemente ne abilitano l’esecuzione inserendo dati, accedendo a particolari ambienti web con credenziali di autenticazione e spuntando box in corrispondenza di formule contrattuali[33]. Tali condotte e modalità di interazione non implicano l’accettazione dello smart contract, ma semmai l’accettazione delle condizioni di contratto pubblicate il linguaggio naturale – o ragionevolmente presunte dalle parti – a cui lo smart contract è subordinato e costituisce, rispetto ad esse, mero momento esecutivo[34].
Anche nel caso in cui il processo di accettazione implicasse l’utilizzo di firme elettroniche avanzate o qualificate, ovvero altre firme che possono conferire forma scritta ai documenti digitali[35], come peraltro tipicamente accade nell’impiego di chiavi asimmetriche nei protocolli DLT, non si tratterebbe di firme che sottoscrivono lo smart contract e che quindi associano il suo contenuto ad una volontà adesiva del firmatario, ma di firme che più banalmente identificano il soggetto che compie l’azione tipica considerata nel contesto in cui opera[36].
Ricorrendo ancora all’analogia della vending machine, possiamo inquadrare meglio ciò che accade quando acconsentiamo all’esecuzione di uno smart contract.
Nel comune distributore automatico, l’atto di inserire una moneta e girare la manopola per ottenere l’erogazione del prodotto costituisce per la dottrina maggioritaria accettazione per fatti concludenti di una proposta di vendita formulata come offerta ex art. 1336 c.c., che il proprietario della macchina fa semplicemente esponendola al pubblico[37]. Secondo tale ricostruzione, le azioni dell’utente, tipizzate nel funzionamento della macchina, hanno un significato sociale univoco, connotate da un elemento di realità (l’inserimento della moneta e azionamento del meccanismo), senza il quale il contratto non è concluso.
Allo stesso modo, lo smart contract, come accennato, può essere visto nient’altro che come un “ingranaggio digitale” in attesa di un input da parte di uno o più utenti in funzione dei quali esegue le operazioni per cui è stato programmato. Per lo più si tratta di operazioni meramente contabili, ma si può trattare di qualsiasi comando veicolato da una rete dati, che a sua volta consente, per esempio, l’accesso e l’interazione con device IoT[38].
6. Qual è il contratto concluso?
Al di là della qualificazione giuridica del rapporto instaurato con l’esecuzione di uno smart contract[39], il punto è: quale contratto si conclude tra le parti che interagiscono attraverso uno smart contract o che ne abilitano l’esecuzione? Con riferimento alla vending machine la domanda diventa: quali obbligazioni si assumono con l’inserimento della moneta? Si dovrà cioè fare riferimento agli ingranaggi della macchina sicché ciò che essi fanno è l’obbligazione? O si deve fare riferimento a ciò che è atteso dall’utente indipendentemente da ciò che gli ingranaggi fanno? Fuor di metafora, quando si abilita l’esecuzione di uno smart contract, si acconsente che esso operi secondo le sue istruzioni rinunciando a discuterne il contenuto, o si pretende che esso esegua determinati compiti che l’utente ragionevolmente si aspetta siano correttamente trascritti in forma di codice eseguibile dalla macchina?
Non c’è dubbio che la risposta sia la seconda[40]. Valga il seguente esempio. Se inseriamo una moneta in un distributore pubblico e il prodotto non viene rilasciato perché l’ingranaggio è stato di proposito progettato per saltare una erogazione su dieci, il proprietario della macchina non potrà sfuggire alla propria responsabilità risarcitoria-restitutoria sostenendo che il meccanismo ha funzionato correttamente secondo le sue specifiche originarie. Infatti, il contratto o l’obbligazione sottesi al funzionamento della macchina sono quelli che impegnano il suo proprietario a rilasciare un prodotto per ogni moneta inserita, e ciò indipendentemente dalla volontà contingente delle parti o da ciò che l’ingranaggio esprime[41].
7. Lo smart contract in ambiente blockchain.
Nick Szabo, fin dalla sua prima descrizione di uno smart contract, non lo inserisce in un contesto blockchain – tecnologia non ancora esistente nel 1994 – ma fa un vago cenno a soluzioni che fanno uso di protocolli «of the rich new building blocks coming out of the fields of cryptography and computer science»[42]. Egli mantiene quindi un approccio neutrale rispetto alla tecnologia di implementazione degli smart contract, pur sottolineando come questi abbiano «the potential to greatly reduce the fraud and enforcement costs of many commercial transactions»[43]. Egli, inoltre, non fa alcun cenno al tema, più tardi assai popolare, dell’eliminazione dell’intermediario. Szabo, infatti, sta solo suggerendo la possibilità di trasferire on line le comuni relazioni contrattuali che avvengono nel mondo fisico tra due soggetti, vendor e customer, mantenendo per esse un grado di riservatezza e sicurezza (tamper-proof) paragonabili, se non superiori, a quelle paper-based.
La tecnologia blockchain realizza molto bene questo obiettivo, e per di più consente che tali relazioni contrattuali on line siano più approcciabili, a disposizione di una vasta platea di utenti peer. È solo questo il motivo per cui gli smart contract, dagli anni Novanta, sono oggi tornati in auge.
Torniamo ancora all’analogia della vending machine. Nella relazione obbligatoria mediata da un distributore automatico abbiamo un unico proponente – il proprietario della macchina – a fronte di un pubblico indistinto di acquirenti (one to many). Differentemente, con lo smart contract inserito in blockchain non esiste un proprietario della macchina (reti permissionless) e se esiste (reti permissioned) è irrilevante. Lo smart contract, infatti, può facilmente essere messo a disposizione di un numero indefinito di proponenti per raggiungere un altrettanto numero indefinito di acquirenti (many to many) affinché tra loro si perfezioni lo scambio di beni e servizi[44].
È sostanzialmente ciò che già accade con tutte le piattaforme di commercio elettronico. Nulla di nuovo sotto il sole quindi, tranne il fatto che uno smart contract inserito in blockchain consente, proprio come una vending machine, di fare a meno dell’intermediario fornitore e gestore della piattaforma di commercio elettronico[45] nonché di garantire maggiore protezione del consumatore in caso di errore o a fronte di una errata esecuzione delle obbligazioni del vendor[46].
Se prendiamo in considerazione il colosso Amazon, per citare il sito di e-commerce più noto in occidente, possiamo sostenere che il suo ruolo per lo più si riduce a mero intermediario. La piattaforma infatti non fa altro che mettere a disposizione di vendor e customer soluzioni di tipo smart contract per concludere tra loro contratti di compravendita[47]. Ebbene, la tecnologia blockchain suggerisce l’idea che si possa fare a meno di Amazon e che lo sviluppo della piattaforma (open source) possa essere gestito da un network di sviluppatori indipendenti e mantenuta da un numero indefinito di nodi-utenti, con costi inferiori e parametri di sicurezza e trasparenza maggiori rispetto a soluzioni proprietarie.
Anche in questo scenario, dove le parti sono indefinite e interagiscono attraverso l’esecuzione di uno smart contract, quest’ultimo non è la fonte delle reciproche obbligazioni, ma è solo lo strumento esecutivo di quelle, scelto dalle parti quale condizione di efficacia[48].
8. Il decreto semplificazioni.
Più che semplificare, con riferimento agli smart contract il D.L. 135/2018 ha senz’altro complicato le cose. In questo lavoro abbiamo visto che uno smart contract è una locuzione che assume vari livelli di significato, nessuno dei quali è riconducibile alla nozione di contratto dell’art. 1321 c.c. né si tratta di un fenomeno indissolubilmente connesso ad architetture di tipo blockchain[49].
Ciò nonostante, la definizione di smart contract fornita dal secondo comma dell’art. 8-ter del D.L. 135/2018 («Si definisce “smart contract” un programma per elaboratore che opera su tecnologie basate su registri distribuiti e la cui esecuzione vincola automaticamente due o più parti sulla base di effetti predefiniti dalle stesse. Gli smart contract soddisfano il requisito della forma scritta previa identificazione informatica delle parti interessate») è ancora una volta ispirata dall’idea errata che esso sia un particolare tipo di contratto.
Nella disposizione in parola, infatti, lo smart contract è sì descritto come «programma per elaboratore» (arbitrariamente vincolato alla tecnologia DLT), ma è al tempo stesso assimilato ad un contratto allorché è scritto che «vincola automaticamente due o più parti» e che, a certe condizioni, «soddisfa la forma scritta». Ebbene, un documento o un programma per elaboratore – quale lo smart contract è – non vincola le parti e soprattutto non può avere la forma scritta prevista dall’art. 2702 c.c., in quanto essa, seppur conseguita con firme digitali o altre soluzioni con analoghi effetti, è attributo dei contratti non dei documenti, né dei programmi per elaboratore.
L’art. 8-ter “risolve” le proprie ambiguità interpretative delegando opportunisticamente all’AgID il compito di sciogliere il nodo gordiano: «Gli smart contract soddisfano il requisito della forma scritta previa identificazione informatica delle parti interessate, attraverso un processo avente i requisiti fissati dall’Agenzia per l’Italia digitale con linee guida da adottare entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto» (art. 8-ter, comma 2). Non stupisce che alla data di stampa del presente lavoro, ancorché il termine sia ampiamente scaduto, l’Agenzia non abbia ancora provveduto all’emanazione delle linee guida.
9. Conclusioni.
Lo smart contract non è un contratto, e non lo è in nessuna declinazione lo si intenda.
Lo smart contract è innanzi tutto un documento (in formato elettronico) che semmai può costituire prova dell’esistenza di un contratto o di altro atto o fatto.
Inoltre, se considerato come mera espressione della creatività del programmatore, lo smart contract è un’opera dell’ingegno e come tale mantiene la sua identità sia se scritto su carta, su file di testo o su file eseguibile (per esempio Java Script, Solidity o Golang). In tale accezione, lo smart contract è un programma per elaboratore che prescinde dal supporto sul quale è scritto[50].
Se considerato non tanto come insieme di linee di codice in sé, ma come uno specifico formato di file, diamo risalto allo smart contract in quanto elemento elettronico destinato ad interagire con una determinata piattaforma. In tale accezione siamo fuori dal domino delle opere dell’ingegno e lo smart contract è una particolare res: un file eseguibile, integrato cioè dall’ambiente operativo software e hardware nel quale deve operare. Esso è, in altre parole, un ingranaggio digitale di un meccanismo più vasto (la piattaforma).
Infine, se consideriamo lo smart contract come il testo di un contratto (documento quindi) in attesa di essere accettato – ammesso che si possa superare il test di intellegibilità – dobbiamo riconoscere che si tratterebbe pur sempre di un testo assai limitato in quanto esso regola solo la parte esecutiva dell’accordo, quella processata dalle macchine a cui lo smart contract fornisce istruzioni. In tale accezione, lo smart contract, considerato che non è un documento autografo, né un documento soggetto a sottoscrizione, potrebbe al massimo rientrare nella categoria delle scritture private improprie a cui viene comunque attribuita dal legislatore una qualche rilevanza probatoria[51].
Riassumendo, uno smart contract, a seconda della prospettiva da cui si osserva il fenomeno è:
- un documento, rilevante per il diritto a meri fini probatori;
- un programma per elaboratore, considerato a prescindere dalle macchine sul quale è destinato ad operare[52];
- una macchina virtuale destinata ad operare in un determinato ambiente hardware e software (lo smart contract è una modalità di esecuzione di un contratto mentre l’abilitazione di uno smart contract è al tempo stesso accettazione e atto esecutivo di un contratto);
- un modello di accordo quadro destinato a regolare in modo uniforme situazioni giuridiche soggettive analoghe (riprendendo Nick Szabo: «A smart contract is a set of promises»).
In nessuno dei quattro casi sopra elencati, gli smart contract sollevano problemi diversi da quelli già affrontati da dottrina e giurisprudenza in ordine ai contratti conclusi a mezzo di distributori automatici e contratti a distanza, e con essi i relativi problemi di legge applicabile e foro competente. Semmai gli smart contract amplificano il fenomeno di oggettivazione del contratto[53] in quanto si propongono di promuovere al massimo grado la standardizzazione dei rapporti negoziali di massa attraverso l’ampio ricorso a moduli e formulari[54].
Gli smart contract in ecosistema blockchain, di contro, sollevano un problema qualora il protocollo consenta interazioni anonime (es.: bitcoin), ma si tratta in questo caso di un problema di effettiva applicazione della disciplina (enforceability) e non di individuazione della disciplina applicabile (problema peraltro che in parte può essere risolto con depositi cauzionali dei vendor e il ricorso a soluzioni ADR)[55].
Sotto altro profilo, invece, gli smart contract, e in generale le soluzioni DLT con il conseguente ricorso alla standardizzazione contrattuale anche per microtransazioni, costituiscono il segnale e la conferma di una profonda trasformazione della nostra società nella quale è in crisi il dogma della volontà secondo il quale il negozio giuridico privato è sempre frutto del potere di autonomia delle parti che liberamente si danno un regolamento tutelato dall’ordinamento. Si tratta invero di una crisi conclamata che risale quantomeno agli anni Quaranta[56] e che trovo ben inquadrata nelle lungimiranti parole di un grande Maestro che nel 1977 scriveva:
«il fenomeno costante dell’epoca attuale è proprio la continua riduzione o restrizione della libertà contrattuale per esigenze obiettive della collettività e per il generalizzarsi del traffico di serie o di massa: cosicché, dei due termini in cui fondamentalmente si esprime tale principio, quello della libertà di contrarre e quello della libertà di determinare il contenuto del contratto, almeno il secondo è ormai sicuramente relegato ad aspetti (quantitativamente) di margine»[57].
___________________
[1] N. Szabo, Smart Contracts (1994).
[2] Più correttamente, in ambiente Hyperledger, al posto della locuzione “smart contract”, si utilizza “chain code”. Recentemente, volendo evidentemente prendere le distanze dalla nozione di contratto, anche Vitalik Buterin, co-founfer di Ethereum, ha scritto: «To be clear, at this point I quite regret adopting the term “smart contracts”. I should have called them something more boring and technical, perhaps something like “persistent scripts“» (Twitter, 13 ottobre 2018) disponibile su https://twitter.com/vitalikbuterin/status/1051160932699770882?s=12.
[3] I richiami e le riflessioni sui principi elaborati da dottrina e giurisprudenza italiane hanno tuttavia valenza universale, si rivolgono cioè all’immutabile ontologia del contratto. Quanto qui esposto, quindi, va al di là della prospettiva di diritto europeo e di civil law e può essere validamente recepito anche in ordinamenti di common law.
[4] Come cercherò di dimostrare in questo contributo, lo smart contract in sé non prospetta questioni originali per il giurista. Al contrario, l’imputabilità delle condotte assunte ed eseguite attraverso uno smart contract, non essendo in alcuni casi riconducibili ad un soggetto determinato ma ad una DAO, è questione assai interessante che meriterebbe una riflessione ampia che potrebbe utilmente attingere a quella già avviata in tema di IA.
[5] Si tratta del noto pagamento (fatto da Laszlo Hanyecz) di un paio di pizze Papa John’s, del valore totale di 30 dollari, al prezzo di 10.000 BTC, al cambio odierno (agosto 2019) pari ad oltre 80 Milioni di dollari.
[6] Si fa risalire il primo vagito della rivoluzione a venire nel post di Wei Dai, Anonymous credit (1997) in cui l’autore si chiede se sia possibile costituire un sistema affidabile di credito “anonimo”, senza cioè ricorso ad un ente centrale considerato affidabile. Seguono i lavori di Nick Szabo che introdusse il concetto di smart contract con il paper Smart Contracts cit., a cui seguirono altri contributi nei due anni successive dove l’idea originaria veniva delineata immaginando applicazioni pratiche: Formalizing and Securing Relationships on Public Networks (1997), Contracts with Bearer (1997), Secure Property Titles with Owner Authority (1998).
[7] Post in mailing-list cypherpunk di Wei Dai, B-Money, an anonymous, distributed electronic cash system (1998) dove l’Autore descrive l’architettura di un sistema criptovalutario su base anonima capace di eseguire obbligazioni di pagamento senza intermediari; N. Szabo, Bit Gold (1998) in cui l’Autore descrive la proof-of-work quale soluzione di un problema criptografico per superare il c.d. Byzantine fault. I progetti di Dai e Szabo non videro mai la luce, ma gettarono le basi della successiva tecnologia bitcoin.
[8] Lo stesso Szabo considera in principio la loro applicazione limitata alle criptovalte. Gli smart contract hanno invece un’applicazione assai più vasta. Il loro inserimento in ambiente IoT consente l’esecuzione di un’ampia varietà di obbligazioni aventi ad oggetto anche asset fisici. Di diverso avviso sono M.L. Perugini e P. Dal Checco, Introduzione agli smart contract», 2015, p. 10 (disponibile su: http://ssrn.com/abstract=2729545): «L’oggetto delle clausole smart è informaticamente circoscritto ai beni mobili di natura digitale, stante l’impossibilità materiale di inserire nel protocollo informatico beni di natura differente». In realtà non occorre inserire oggetti fisici in una rete telematica, ma è sufficiente che essi reagiscano a comandi provenienti da quest’ultima o siano univocamente rappresentati in forma digitale.
[9] N. Szabo, Smart Contracts: Building Blocks for Digital Markets, in Extropy: The Journal of Transhumanist Thought, vol. 16, 1996, capitolo introduttivo. Tuttavia, più correttamente, lo stesso Autore (Smart Contracts cit.) aveva scritto che: «A smart contract is a computerized transaction protocol that executes the terms of a contract»: quindi un protocollo di esecuzione a cui il contratto preesiste.
[10] Negli ordinamenti di common law l’approdo concettuale è il medesimo allorché si parla di meeting of the minds.
[11] Prima ancora del documento, inteso come supporto materiale su cui è scritto un testo, esiste il testo stesso, inteso come corpus mysticum, frutto dell’ingegno del suo autore, che prescinde dalla materialità di uno specifico documento-supporto. Torneremo su questa distinzione nei paragrafi successivi per mettere a fuoco le diverse prospettive dalle quali considerare gli smart contract.
[12] S. Patti, Della prova documentale, in Commentario al Codice Civile, Bologna, 1996, 7. Dello stesso avviso è un altro illustre Autore, F. Carnelutti, Documento (Teoria moderna), in Nov. Dig., Torino, 1960, VI, 85 ss, il quale definisce il documento in termini generalissimi come «qualcosa che fa conoscere qualcos’altro».
[13] Il documento, come tale, si distingue poi in base alla materia e al contenuto. A sua volta il contenuto può essere di tipo narrativo o dichiarativo. E ancora, la dichiarazione può avere carattere testimoniale o dispositivo. Tutte queste categorie concettuali mal si adattano allo smart contract che, come vedremo, ha una natura e finalità ibride che mutano a seconda della prospettiva da cui viene considerato. Non si può pertanto applicare ad esso la teoria classica del documento tal quale, ed è tuttavia necessario conoscerla per dotarsi di una solida base concettuale senza la quale risulta difficile mettere a fuoco i diversi modi in cui uno smart contract si atteggia. A tale riguardo si rinvia ai contributi già citati nonché, in via più generale, a P. Guidi, Teoria del documento, Milano, 1950 e a N. Irti, Sul concetto giuridico di documento, in Riv. Trim. dir. e proc. civ., 1969, 484 ss.
[14] Ovviamente anche il silenzio o l’immobilismo, annoverabili tra i fatti concludenti, sono in certe condizioni manifestazione di una qualche volontà rilevante per il nostro ordinamento.
[15] Questa conclusione (di cui lo stesso Szabo aveva in origine avvertito la fondatezza – vedi nota 9) è del tutto trascurata da tanti che hanno affrontato il problema dell’inquadramento sistematico dello smart contract e che lo collocano piuttosto frettolosamente nella dottrina della contract law. Ex multis, K. Werbach-N. Cornell, Contracts ex Machina, 67 Duke Law Journal 313-382 (2017), p. 341 disponibile su https://scholarship.law.duke.edu/dlj/vol67/iss2/2; S. Murphy-C. Cooper, Can smart contracts be legally binding contracts? An R3 and Norton Rose Fulbright White Paper, (2016), disponibile su http://www.nortonrosefulbright.com/), p. 27, i quali paragonano gli smart contract ai “clickwrap” agreements con riferimento all’ordinamento statunitense. In Italia fanno eco alla corrente dei “contrattualisti” la maggior parte dei contributi divulgativi e scientifici: tra tutti, v. F. Sarzana di S. Ippolito – M. Nicotra, Diritto della blockchain, Intelligenza artificiale e IoT, IPSOA 2018, p. 101. Fanno eccezione – riconoscendo che lo smart contract non è affatto un contratto – in pochi, tra cui Explainer: Smart Contracts, Monax, disponibile su https://perma.cc/45AT-KUEF; ISDA-Linklaters, Whitepaper on Smart Contracts and Distributed Ledger – A Legal Perspective, (2017), disponibile su https://www.isda.org/a/6EKDE/smart-contracts-and-distributed-ledger-a-legal-perspective.pdf. Tra gli Autori italiani, evitano di cadere nella nozione di contratto anche I.M. Alagna-G.G. Pacelli, Il giurista informatico: Digital Single Market e approccio olistico, in Ciberspazio e diritto, vol. 18, n. 58 (2-2017), pp. 261-288; S. Capaccioli, Smart contracts: traiettoria di un’utopia divenuta attuabile, ivi, vol. 17, n. 55 (1/2 – 2016); C. Bomprezzi, Blockchain e assicurazione: opportunità e nuove sfide, in Diritto Mercato Tecnologia, 2017, 1. In particolare, segnalo R. Pardolesi e A. Davola, «Smart contract», lusinghe ed equivoci dell’innovazione purchessia, in Foro It., 2019, V, p. 205, per i quali: «Allo stato, la categoria [ndr: degli smart contract] è soltanto immaginaria; vi confluisce tutto ciò che parla un linguaggio di bit e vanta attinenza, da un minimo sino alla soglia di equipollenza, a una nozione di contratto».
[16] G. Sartor, Gli agenti software nuovi soggetti del ciberdiritto, in Contratto e Impr., 2002, 2, 465; G. Finocchiaro, La conclusione del contratto telematico mediante i software agents un falso problema giuridico, ivi, 500. Quest’ultima rileva per i software agents lo stesso errore indotto dal nomen che condiziona l’interprete a proposito degli smart contract: «Perfino il termine utilizzato, “agent”, è ricco di ambiguità, richiamando l’istituto dell’agency il quale, com’è noto, si assimila, per alcuni aspetti, negli ordinamenti di civil law alla rappresentanza […]. Il programma non ha dunque soggettività giuridica e pertanto non può essere rappresentante». Vedi anche successiva nota 27 a proposito di smart contract e IA.
[17] Ed è così, non a caso, che lo definisce innanzi tutto l’art. 8-ter del D.L. 135/2018 che, seguendo una impostazione mainstream associa poi lo smart contract in modo univoco alla tecnologia a registri distribuiti attribuendogli peraltro forma scritta al ricorrere dei requisiti fissati dall’Agenzia per l’Italia Digitale (rinvio per critica al successivo paragrafo 8). Lo studio degli smart contract quale opera dell’ingegno è del tutto irrilevante in questa sede. Ciò che suscita interesse non è il suo contenuto creativo, ma il suo contenuto operativo, la sua idoneità cioè ad eseguire determinate istruzioni.
[18] A Szabo non interessa cogliere la differenza tra l’opera dell’ingegno in sé (il programma per elaboratore) e il mezzo su cui essa è espressa (il file in formato eseguibile). Ma del resto a lui non interessano queste distinzioni giuridiche perché non sta parlando di diritto, ma di computer science.
[19] R. Pardolesi e A. Davola, «Smart contract» cit., p. 205.
[20] Ad uno smart contract residente in ambiente blockchain, sviluppato da una comunità decentralizzata che rimane estranea alla relazione negoziale, non è evidentemente applicabile l’art. 1370 c.c. per il quale «Le clausole inserite nelle condizioni generali di contratto o in moduli o formulari predisposti da uno dei contraenti s’interpretano, nel dubbio, a favore dell’altro».
[21] L. Piatti, Dal Codice Civile al codice binario: blockchain e smart contracts, in Ciberspazio e diritto, vol. 17, n. 56 (3-2016), p. 336, il quale ci ricorda che «Lo smart contract può essere considerata una rappresentazione informatica di dati giuridicamente rilevanti, rientrando così non solo nella definizione di documento informatico descritta all’articolo 1 lettera d) D.lgs. n. 82/2005 (CAD), ma anche nella accezione di “documento elettronico” introdotta dal Regolamento EU n. 910/2014 (eIDAS): «qualsiasi contenuto conservato in forma elettronica».
[22] Allo smart contract è senz’altro riconducibile la disposizione dell’art. 1327 c.c.: «Qualora, su richiesta del proponente o per la natura dell’affare o secondo gli usi, la prestazione debba eseguirsi senza una preventiva risposta, il contratto è concluso nel tempo e nel luogo in cui ha avuto inizio l’esecuzione». Lo smart contract è in sostanza il protocollo con cui si esegue un particolare contratto che la migliore dottrina inquadra nei cc.dd. negozi di attuazione, ovvero quelli – come la volontaria esecuzione del negozio annullabile ex art. 1444 c.c. – nei quali la volontà anziché essere dichiarata è attuata, per cui la produzione degli effetti non sarebbe subordinata alla accettazione e comprensione degli stessi (F. Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1997, 136).
[23] N. Szabo, in Smart Contracts Building Blocks for Digital Markets (1996), § 2, Contracts Embedded in the World.
[24] Il contratto di cui lo smart contract consente l’esecuzione potrebbe anche essere concluso nel momento stesso in cui quest’ultimo riceve gli input di cui ha bisogno per operare (dati ricevuti da un oracle, abilitazione utente, ecc.). Allo stesso modo, nell’analogia della vending machine, il contratto ha natura reale e si conclude il momento in cui si compie l’azione tipica, ovvero allorché si inserisce la moneta e si gira la manopola del distributore.
[25] Sottolinea tale fondamentale aspetto anche S. Comellini, in S. Comellini e M. Vasapollo, Blockchain, Criptovalute, I.C.O. e Smart Contract, Ed. Maggioli, 2019, p. 54: «Mentre un contratto tradizionale è scritto per essere interpretato da “umani”, lo smart contract è scritto per essere interpretato ed eseguito da un software».
[26] Diverso è il caso dei cc.dd. Ricardian Contracts i quali, a differenza degli smart contract, si rivolgono contemporaneamente alle parti in linguaggio simil-naturale e alla macchina in linguaggio machine readable (diverso ancora è lo split contracting model che mescola i due tipi di documenti, l’uno eseguibile dalla macchina e l’altro comprensibile dall’uomo; v. S. Murphy-C. Cooper, Can smart contracts cit., 13.
[27] Ben distingue i due livelli di lettura del documento contrattuale (testo e regolamento) V. Roppo, Il contratto, in Tratt. Iudica-Zatti, Milano, 2001, 458. Vedi anche E. Capobianco, La determinazione del regolamento, in Tratt. Roppo, II, Regolamento, a cura di G. Vettori, Milano, 2006, 214.
[28] In tema di contratto conclusioni on line, resta ovviamente fermo il rispetto della normativa sul commercio elettronico, in particolare gli art. 7, 12 e 13 del D.Lgs. n. 70 del 9 aprile 2003, che obbligano il proponente ad adempiere a determinati obblighi informativi. Non vanno poi trascurati gli eventuali obblighi aggiuntivi di informazione e le preclusioni a tutela del consumatore di cui alla Parte III del D.Lgs. 206/2005 (Codice del Consumo).
[29] Si pone in problema dell’effettiva conoscenza del contenuto del contratto anche G. Finocchiaro, Il contratto nell’era dell’intelligenza artificiale, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2018, 2, 441, la quale sottolinea che il difetto di conoscenza ricorre anche nei contratti eseguiti con agenti software che, quando l’IA è in grado di «prendere decisioni senza che le relazioni causa-effetto siano necessariamente comprese dall’uomo», non sono riducibili alla volontà del programmatore. L’Autrice – citando i pioneristici lavori di A. Cicu, Gli automi nel diritto privato, in Il Filangieri, n. 8, Milano, 1901 e di A. Scialoja, L’offerta a persona indeterminata ed il contratto concluso mediante automatico, Ed. S. Lapi, Città di Castello, 1902 – inquadra in generale il problema come una «rappresentazione in chiave antropomorfa dei programmi per elaboratore» definendolo tra i più affascinanti; e non potrei essere più d’accordo: il problema dell’IA è il medesimo della soggettività delle DAO o delle DApp (Decentralized Application) e, conseguentemente, della responsabilità dei nodi e dell’imputabilità delle condotte collettive anonime che, come accennato nel primo paragrafo del presente lavoro, meritano grande attenzione poiché non si adattano alle categorie giuridiche tradizionali.
[30] Possiamo dividere gli smart contract in due categorie, quelli scritti in partecipazione dai nodi di una rete DLT e che governano il funzionamento del network (es.: le regole del contratto sociale di The DAO) e quelli che regolano-eseguono le interazioni tra utenti del network. Solo il primo tipo (contratto sociale) lascia presumere che le parti comprendano il significato delle regole statutarie. Il secondo tipo (contratti di scambio) sono invece inintellegibili al pubblico comune.
[31] Come ci ricorda, ancora una volta, L. Piatti, Dal Codice Civile cit., 337: «Il nostro legislatore si occupa del tema della lingua del contratto solo in alcune norme di settore [in nota: Così ad esempio gli artt. 9 e 72 del Codice del Consumo e gli artt. 2 e 3 del D. Lgs n. 427/1998 (in tema di multiprorprietà)] e nell’ordinamento notarile, mentre nulla dispone in parte generale nel Codice Civile, lasciando che siano le parti a operare la scelta più adeguata, con la salvaguardia della pronuncia di annullabilità ex art. 1429 c.c. per vizio della volontà, e cioè errore di comprensione del contenuto dell’accordo. La questione, quindi, attiene non tanto all’aspetto formale dell’accordo, ma alla valida espressione della volontà».
[32] Ritengono che si debba trovare una soluzione per rendere intellegibile il codice di programmazione anche ai non addetti ai lavori Y. Hu, M. Liyanage, A. Mansoor, K. Thilakarathna, G. Jourjon, A. Seneviratne, Blockchain-based Smart Contracts – Applications and Challenges, 2019, arXiv:1810.04699 [cs.CY]); nonché A. Wright e P. De Filippi, Decentralized Blockchain Technology and the Rise of Lex Cryptographia, 2015, disponibile su http://ssrn.com/abstract=2580664. Tali Autori, che peraltro come tanti altri ritengono che gli smart contratct siano contratti in senso tecnico anziché documenti, mi pare si cimentino nel vano sforzo di proporre una formalizzazione del linguaggio umano che per sua natura è incompleto, non assiomatizzabile, volutamente e necessariamente vago, come vaghi nel profondo sono i nostri pensieri (la lettura divulgativa su genesi e meccanismi del linguaggio umano è assai vasta; rinvio per tutti a S. Pinker, The language instinct, Penguin 2015, ed italiana, L’istinto del linguaggio, Oscar Mondadori 2009). Wright e De Filippi arrivano addirittura alla conclusione-auspicio secondo cui: «In the near future, it is conceivable that people will rely on powerful smart contract programming languages to organize their own affairs without the technical need for a lawyer» (p. 24). Per altre predizioni futuristiche, v. M. Byrne, Do Lawyers Have a Future?, in LAW (Sept. 20, 2016), [https://perma.cc/H2P4-BC94]; A. Cunningham, Decentralisation, Distrust & Fear of the Body–The Worrying Rise of Crypto-Law, in SCRIPTED 237 (Dec. 2016), [https://perma.cc/PAP2-VWVA]. Al contrario, M.K. Woebbeking, The Impact of Smart Contracts on Traditional Concepts of Contract Law (2018), 18, ritiene che quando gli smart contract necessiteranno di clausole ambigue, si potrà far ricorso a human-based oracles, cioè non si potrà mai fare a meno degli avvocati.
[33] Per abilitazione di uno smart contract intendo pertanto il compimento di atti con cui un soggetto avvia la sua esecuzione così che esso possa compiere il lavoro per cui è stato programmato.
[34] Per L. Parola-P. Merati-G. Gavotti, Blockchain e smart contract: questioni giuridiche aperte, in Contratti 2018, 6, 684, «a differenza dei contratti tradizionali, che offrono la possibilità di adempiere le prestazioni come stabilito nel contratto stesso o di rendersi inadempienti ed andare incontro alla relative conseguenze […], tale opzione non è disponibile in uno smart contract dove l’adempimento del contratto è, per così dire, automatizzato». Invero, uno smart contract è esso stesso atto esecutivo di un contratto e, come tale, potrebbe essere non conforme all’accordo o non soddisfare tutte le sue condizioni (v. infra in nota 41).
[35] Ai sensi dell’art. 20 del CAD, comma 1-bis: «Il documento informatico soddisfa il requisito della forma scritta e ha l’efficacia prevista dall’articolo 2702 del Codice civile quando vi è apposta una firma digitale, altro tipo di firma elettronica qualificata o una firma elettronica avanzata o, comunque, è formato, previa identificazione informatica del suo autore, attraverso un processo avente i requisiti fissati dall’AgID».
[36] Peraltro, in alcuni protocolli, come per esempio in quello bitcoin, le chiavi asimmetriche non sono nemmeno utilizzate a fini identificativi, cioè per imputare un atto ad un determinato soggetto, ma solo a fini abilitativi, cioè per sbloccare una determinata transazione. Non servono cioè ad attribuire una condotta ad un soggetto, ma a consentire la spendita di un determinato credito in una transazione. Non sono d’accordo Parola, Merati, Gavotti, Blockchain e smart contract cit., 686, i quali ritengono che lo smart contract possa essere sottoscritto con un «meccanismo di crittografia a chiave asimmetrica ad opera dei fruitori del blockchain per riconoscere […] il requisito della forma scritta» (così anche D. Di Maio, G. Rinaldi, Blockchain e la rivoluzione legale degli Smart Contracts, in www.dirittobancario.it, 11 luglio 2016.
[37] La dottrina maggioritaria protende per la “soluzione” dell’art. 1336 c.c.: R. Scognamiglio, Dei contratti in generale. Disposizioni preliminari. Dei requisiti del contratto. Artt. 1321-1352 (Libro IV – Delle obbligrazioni), in Comm. cod. civ., a cura di A. Scialoja e G. Braca, Vol. XXVII, Zanichelli Ed., Bologna 1970, p. 196; F. Messineo, Il contratto in genere, Tomo 1, in Tratt. dir. civ. e comm., a cura di A. Cicu, F. Messineo e L. Mengoni, Vol. XV, p. 319, Giuffrè Ed., Milano 1973; C.M. Bianca, Diritto Civile, Vol. I-IV, Milano 1984, p. 248; P.L. Carbone, Vendita attraverso distributori automatici e self-service, in La Vendita, a cura di Bin, Vol. I, Padova, 1994, 393 ss; G.B. Ferri, La vendita in generale (La vendita in generale. Le obbligazioni del venditore. Le obbligazioni del compratore), in Tratt. Rescigno, Vol. 11, Torino 1984, 193; P. Trimarchi, Istituzioni di diritto privato, XIX ed., Milano, 2011, pag. 266; V. Roppo, Il contratto, in Tratt. dir. priv. Iudica-Zatti, II ed., Milano, 2011, pag. 111; A.M. Benedetti, Procedimenti di formazione del contratto, in Diritto civile. Norme, questioni, concetti, Vol. I, Bologna, 2014, pag. 680; F. Galgano, Il contratto, II ed., Padova, 2014, pag. 135 ss.; F. Gazzoni, Obbligazioni e contratti, XVII ed., Napoli, 2016, pag. 856. In particolare, v. D. Di Sabato, Contratti di distribuzione automatica, in Tratt. contr. Rescigno-Gabrielli, Vol. XVII, Torino, 2011, pag. 436. Secondo una diversa ricostruzione del rapporto tra utente e proprietario della macchina, che personalmente condivido, la vendita così conclusa non implica l’esistenza di un contratto, in quanto essa prescinde dall’effettivo incontro di volontà, del tutto fittizio. Assistiamo invece al nascere di obbligazioni reciproche ex art. 1173 c.c. come effetto di condotte socialmente rilevati («Le obbligazioni derivano da contratto, da fatto illecito, o da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico»). Pertanto, l’idea di un protocollo di interazione attraverso il quale le parti eseguono le rispettive obbligazioni per mezzo di smart contract, suggerisce che si debba superare il tradizionale binomio del contratto-atto illecito riconoscendo l’esistenza di rapporti contrattali di fatto, intesi quali rapporti che pur non trovando il loro fondamento in una volontà diretta a costituirli, o quantomeno in un comportamento che si possa definire negoziale, si manifestano ugualmente come rapporti della vita di relazione che, in virtù della loro tipicità sociale, acquistano rilevanza per il diritto (G. Stella Richter, Contributo allo studio dei rapporti di fatto nel diritto privato, in Riv. trim. proc. civ., 1977, 154-155).
[38] Abbiamo tutti i giorni a che fare con smart contract quando sblocchiamo le portiere di vetture in car-sharing e ci viene poi addebitato in automatico il costo della corsa, o quando effettuiamo un bonifico con l’home banking, o acquistiamo un titolo di viaggio on line, o quando paghiamo le bollette con la domiciliazione bancaria. V. anche L. Piatti, Dal Codice Civile cit., pp. 335-336, il quale, per alcune applicazioni IoT, rinvia a E.C. Pallone, Internet of Things e l’importanza del diritto alla privacy tra opportunità e rischi, ivi, Vol. 17, n. 55, 2016, pp. 163-183. Uno smart contract, invero, opera anche nel caso di apertura di un banalissimo account di servizi gratuiti (posta elettronica, social, piattaforma di content sharing, ecc.). Chi scrive fu richiesto nel 2006 e nel 2008 di fornire due pareri ad una azienda giapponese di produzione e vendita di macchine movimento terra che intendeva commercializzare in Italia veicoli dotati di un starter interrupter device, ovvero un dispositivo che in caso di mancato pagamento di un certo numero di rate di leasing, bloccava tramite sistema GPS l’operatività del motore. Si trattava già allora di applicare la disciplina italiana all’esecuzione di un contratto di finanziamento eseguito (enforced) tramite smart contract.
[39] Sia esso un contratto ex art. 1336 c.c. oppure siano obbligazioni nascenti da contatto sociale ex art. 1173 c.c..
[40] Non è d’accordo P. Cuccuru, Blockchain ed automazione contrattuale. Riflessioni sugli smart contract, in Nuova giur. civ., 2017, 1, § 9, il quale auspica lo sviluppo di interfacce user-friendly tra il linguaggio naturale e quello digitale, relegando solo a quest’ultimo il compito di fonte e prova delle obbligazioni assunte dalle parti.
[41] Questa conclusione è supportata alla luce dei fatti del più famoso caso di discrepanza tra codice (smart contract) e contratto effettivo. Si tratta del noto caso The DAO del 2016. In occasione di quel progetto fu riutilizzata impropriamente l’espressione the code is law (coniata da L. Lessig, Code and other laws of cyberspace, Basic Books 1999) a voler intendere che chi aderiva alla DAO, accettava che il protocollo di funzionamento del network, a tutti disponibile in open source, costituisse i termini del contratto collettivo tra i partecipanti. Tuttavia, allorché eseguendo il protocollo un partecipante riuscì a farsi accreditare un terzo dei fondi criptovalutari in Ether (corrispondenti al tempo a circa 50 milioni di dollari), ci fu una vera e propria controversia con tutti gli altri nodi che si concluse con un hard-fork e il de-listing del progetto dai principali exchange. Ciò dimostra che evidentemente i termini dell’accordo erano altrove, preordinati e inespressi nel codice, e tuttavia gerarchicamente superiori ad esso (ancorché subordinati, sempre e comunque, alla legge degli ordinamenti nazionali).
[42] N. Szabo, Smart Contracts cit..
[43] Voglio sottolineare questo aspetto: lo smart contract è tale anche se non inserito in blockchain, senonché troppo spesso si dà per scontato che la definizione di smart contract implichi la sua esecuzione in un network DLT. Di questo parere sembra essere anche il nostro legislatore che definisce lo smart contract solo in connessione con la tecnologia a registri distribuiti. Questa commistione (smart contract e blockchain), che ritroviamo in innumerevoli contributi (ex multis, S. Capaccioli, Smart contracts cit., p. 28; A. Savelyev, Contract Law 2.0: «Smart» Contract as the Beginning of the End of Classic Contract Law, in Higher School of Economics Research Paper No. WP BRP 71/LAW/2016, disponibile su SSRN: https://ssrn.com/abstract=2885241 or http://dx.doi.org/10.2139/ssrn.2885241; C. Bomprezzi, Blockchain e assicurazione cit., 1, che richiama la definizione di Gideon Greenspan, per cui «Uno smart contract è un frammento di codice che viene memorizzato su una Blockchain, eseguito mediante transazioni Blockchain, e che legge e scrive dati nel database Blockchain») non aiuta l’interprete a distinguere chiaramente i due fenomeni e coglierne le implicazioni giuridiche ed è il motivo per cui molti lavori (ex multis, P. Cuccuru, Blockchain cit., pp. 107-119; Savelyev, Contract Law cit., 15; D. Di Sabato, Gli smart contracts: robot che gestiscono il rischio contrattuale, in Contr. e impr., 2017, 2, § 2; v. anche altri in nota 41) si concentrano sulla presunta “esecuzione forzata” degli smart contract perdendo di vista il fatto che non sono affatto contratti, ma documenti, o tutt’al più modalità esecutive di questi sicché sostenere che lo smart contrat è self-efficiet o self-enforcing (Savelyev) è tautologico.
[44] L’irrilevanza del proprietario della macchina (ovvero di colui che ha predisposto lo smart contract o che ne detiene i diritti d’autore) è talmente irrilevante se si pensa che in molte reti peer-to-peer, gli smart contract sono redatti con il contributo indistinguibile ed anonimo di un numero indefinito di sviluppatori. È solo il meccanismo di consenso adottato dal network che determina la release dello smart contract. Si potrebbe dire che lo smart contract è opera dell’ingegno frutto della creatività di un ente collettivo. Come accennato in apertura del presente contributo, ritengo che occorra concentrare, più che altrove, la riflessione giuridica e sociale sui diritti e responsabilità di un network distribuito peer-to-peer.
[45] Parola, Merati, Gavotti, Blockchain e smart contract cit., mettono invece in risalto una diversa e presunta prerogativa della tecnologia blockchain: «La tecnologia blockchain permette, quindi, per così dire, la self-enforceability del contratto: vengono cioè eseguiti automaticamente i termini e le condizioni dello stesso» (p.10). Conforme anche Capaccioli, Smart contracts cit., 37; D. Di Sabato, op. loc. ult. cit., il quale così definisce gli smart contract: «Si tratta di contratti, al cui perfezionamento si può giungere anche secondo gli schemi tradizionali di conclusione dell’accordo, che vengono tradotti in programmi informatici e che, attraverso questi, si autoeseguono». Secondo M. Raskin, The Law and Legality of Smart Contracts, 1 GEO. L. TECH. REV. 305 (2017), «Unlike non-smart contracts whose performance can be stopped by the parties either voluntarily or by court order, once a strong smart contract has been initiated, by definition, it must execute» (p. 311). Anche questo Autore, che pure intende lo smart contract solo embedded in un ecosistema blockchain, confonde il contratto con la sua esecuzione. In realtà, come anche nota G. Finocchiaro, Il contratto cit., 458, se si esce dalla logica per cui lo smart contract è un contratto, si vede chiaramente che la tecnologia blockchain permette tale self-enforceability tanto quanto qualsiasi altra tecnologia non DLT già esistente. Infatti, uno smart contract può in certi casi ben essere sospeso, dipende dallo stato di esecuzione dell’obbligazione e dai protocolli di intervento (contra, P. Cuccuru, Blockchain cit., § 8). Anche un banale bonifico bancario non può essere impedito una volta disposto, ma ciò accade solo per la rapidità di esecuzione del pagamento e dalla complessità dei processi di spunta interbancaria.
[46] Per una rassegna delle patologie contrattuali nell’esecuzione dei contratti conclusi a mezzo di distributori automatici, v. E. Manelli: Il vending. Criticità di disciplina e di tutela, disponbile su http://academia.edu. L’autore parla di tutela affievolita (p. 11) che invece verrebbe pienamente recuperata nel caso in cui tutti i passaggi esecutivi dello smart contract fossero indelebilmente fissati in blockchain.
[47] Tali contratti di vendita non sono ad effetti irreversibili, né irreversibili sono gli errori nella progettazione di smart contract inseriti in blockchain (contra, Capaccioli, Smart contracts cit., 36-38; P. Cuccuru, Blockchain cit., § 9). Per qualsiasi effetto indesiderato prodotto da uno smart contract non solo è possibile porvi rimedio off-chain, ma è anche possibile scrivere un nuovo smart contract che, eseguito in futuro unitamente al primo, rimedi all’originario errore di progettazione (v. L. Piatti, Dal Codice Civile cit., 340, il quale parla di “contratti satellite” e richiama il lavoro di B. Marino, A. Jules, Setting standards for altering and undoing smart contracts, in Rule Technologies. Research, Tools, and Applications 10th International Symposium, RuleML 2016, Stony Brook, NY, USA, July 6-9, 2016).
[48] Così anche Raskin, The Law and Legality cit., 322 («In the realm of smart contracts, unlike traditional contracts, acceptance comes through performance»). Lo smart contract è quindi lo strumento che perfeziona un particolare tipo di contratto che, in chiave evolutiva, potremmo definire reale, anche se la traditio rei rimane su un piano virtuale e si compie attraverso il trasferimento di un token o il pagamento in criptovalute o con il compimento di altro atto inequivoco di adesione al programma contrattuale sotteso tra le parti.
[49] V. R. Pardolesi e A. Davola, «Smart contract» cit., p. 202-203, i quali ricordano che già prima dell’Era Internet – e ancora oggi – le grandi imprese riversano accordi contrattuali in codice binario attraverso protocolli EDI. A proposito della non consustanzialità della tecnologia blockchain agli smart contract, così gli Autori concludono: «Può darsi, dopo tutto, che l’ebrezza da novità abbia preso la mano dei più; che la suggestione di un self-enforcement autoreferenziale – in forza dell’immutabilità dell’informazione consegnata alla condivisione in rete – abbia alimentato aspettative smodate; che, tutto sommato, si sia persa la settorialità di un registro digitalizzato condiviso, provvido per certi versi e in determinati contesti, ma inerte rispetto ad altre situazioni».
[50] Così anche S. Comellini e M. Vasapollo, Blockchain cit. che qualificano lo smart contract da una prospettiva legale e informatica, rispettivamente come: «la traduzione, scritta in un particolare linguaggio di programmazione, di un contratto» (p.54) e come «un software che si occupa di eseguire le articolate regole informatiche scritte al suo interno per amministrare, in maniera automatica, l’esecuzione di un rapporto contrattuale» (p. 92).
[51] Potrebbe essere questa la soluzione interpretativa del secondo comma dell’art. 8-ter del D.L. 135/2018 (in proposito, v. P. Guidi, Teoria del documento cit., 199, con riferimenti in nota 307).
[52] I programmi per elaboratore sono protetti ai sensi dell’art. 1 della legge italiana sul diritto d’autore (Legge n. 633 del 22 aprile 1941, che implementa la Direttiva 2009/24/CE), conformemente all’art. 4 del Trattato OMPI sul diritto d’autore che annovera i programmi per elaboratore nell’elenco dell’art. 1 della Convenzione di Berna sulla protezione delle opere letterarie ed artistiche. Inoltre, se effettivamente consideriamo lo smart contract come un ingranaggio digitale, non si può trascurare il fatto che, qualora consista in una nuova soluzione che risolve un problema tecnico, esso potrebbe costituire un’invenzione secondo l’interpretazione corrente dell’art. 52 della Convenzione di Monaco.
[53] P.L. Carbone, Vendita cit., 393-394.
[54] Così conclude G. Finocchiaro, Il contratto cit., 459: «non pare che, nel caso in cui il contratto sia uno smart contract, sia richiesto al giurista di superare le categorie consolidate né di inventarne di nuove […] non per ogni fenomeno occorre una nuova regola, come purtroppo frequentemente si sente invocare: spesso, infatti, viene richiesta una nuova legge per ogni nuovo fenomeno. Ma il giurista è interprete e non mero contabile del diritto e deve rivendicare con orgoglio il suo ruolo».
[55] Le reti permissionless possono sollevare anche problemi di trattamento dati personali, ma non necessariamente. In proposito, mi permetto di rinviare al mio, I dati personali in ambiente blockchain tra anonimato e pseudonimato, in Ciberspazio e diritto, vol. 19, n. 61 (3 – 2018), p. 457 (disponibile anche su SSRN: Data Protection in the Blockchain Environment: GDPR is not a Hurdle to Permissionless DLT Solutions).
[56] G. Haupt, Über faktische Vertragsverhältnisse, in Lipziger Studien, Leipzig, 1941; C.A. Funajoli, I rappporti di fatto in materia contrattuale, in Annali dell’Università di Ferrara, 1952, I, 103; E. Betti, Sui cosiddetti rapporti contrattuali di fatto, in Jus, 1957, 353; L. Ricca, Sui cosiddetti rapporti contrattuali di fatto, Pubblicazioni dell’Istituto di Scienze Giuridiche, Economiche, Politiche e Sociali delta Università di Messina, Giuffrè, Milano, 1965; N. Lipari, Rapporti di cortesia, rapporti di fatto, rapporti di fiducia, in Studi in onore di G. Scaduto, Vol. II, Padova, 1970; V. Franceschelli, Premesse generali per uno studio dei rapporti di fatto, in Rass. Dir. civ., 1981, 662; Id., I rapporti di fatto. Ricostruzione della fattispecie e teoria generale, Univ. Trieste. Fac. Giuridica, Giuffrè, Milano 1984 L. Stanghellini, Contributo allo studio dei rapporti di fatto, Milano, 1997; F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, ESI, 2017, 857.
[57] G. Stella Richter, Contributo cit., 189. Si torna alla lettura non contrattuale dei rapporti automatizzati ex art. 173 c.c. accennata in nota 31.